Si può dire ciò che si vuole (certo, gli argomenti non mancano) sugli indirizzi della politica scolastica italiana dopo la Seconda Guerra Mondiale fino agli ultimi decenni del 900. Su un punto, tuttavia, si dovrebbe concordare, e cioè sul carattere espansivo delle scelte effettuate. Se si pensa qual era la condizione di partenza, e come fruire di educazione scolastica fosse ancora il segno dell’appartenenza a strati favoriti della popolazione (tanto più favoriti se l’educazione dal livello primario si estendeva a quello secondario) è evidente il cambiamento intervenuto nei modi di vita dei bambini e degli adolescenti, ma anche delle loro famiglie. Fruire di educazione formale per un numero consistente di anni è diventata con gli anni la condizione normale di esistenza. Ciò non significa che non vi siano ancora sacche di deprivazione, ma il fenomeno ha cambiato di caratteristiche. La deprivazione di educazione scolastica va considerata più un fenomeno di patologia sociale (conseguente ad altre manifestazioni negative nel comportamento di strati della popolazione, come l’accettazione della cultura di gruppi criminali) che l’espressione di un condizionamento sociale negativo conseguente alla deprivazione culturale o al disagio economico delle famiglie.
Se, di per sé, le scelte espansive hanno interpretato una linea di
progresso, non si può dire lo stesso per le politiche di contorno, che avrebbero dovuto qualificare la crescita dell’offerta di educazione. Era del tutto evidente che le proposte di apprendimento adatte a frazioni limitate della popolazione avrebbero dovuto esse- re ripensate e riprogettate per incontrare le esigenze di bambini e ragazzi che, nel loro ambito familiare, per primi superavano le barriere che in precedenza avevano escluso dalla scuola altri membri delle loro famiglie. Sarebbe stato necessario avere a disposizione i riferimenti conoscitivi e operativi necessari per organizzare proposte didattiche che non si limitassero a riproporre con qualche aggiustamento quelle preesistenti. Aggiustamenti più sostanziali avrebbero richiesto che le scuole potessero fare affidamento su nuovi profili professionali e su una diversa organizzazione del lavoro. Ma, ed è questo il quesito che col tempo ha assunto un rilievo centrale, per fare che cosa? Quali traguardi avrebbero dovuto impegnare i nuovi insegnanti e quali attività si sarebbero dovute assicurare attraverso una diversa organizzazione del lavoro?
A questi quesiti si può rispondere solo se l’educazione scolastica è considerata parte di un disegno culturale più ampio, che investe non solo l’infanzia e l’adolescenza, ma la popolazione nel suo complesso. È un disegno culturale che deve comprendere la lingua, i comportamenti, le relazioni interpersonali, i sistemi di comunicazione, i valori, i rapporti tra aspetti differenti della vita sociale.
Ed è proprio ciò che è mancato. In mancanza di un disegno culturale si sono utilizzati gli aloni del disegno preesistente, o si sono assunti prestiti da altri settori della vita sociale che, a torto o a ragione, siano stati considerati più dinamici, meglio in grado di interpretare i cambiamenti in corso. Da un lato si sono ostentati apprezzamenti positivi per esiti educativi che non erano tali, dall’altro si è accolta come innovativa una cultura mediocre, costituita per lo più da cascami di cultura organizzativa di derivazione aziendale.
Da troppi anni non si sente enunciare da parte dei responsabili del sistema educativo un intento che possa interpretarsi come l’inizio di un nuovo disegno culturale (e, quindi, anche educativo). Il sistema di volta in volta mostra un volto arcigno (come quando accetta i dati delle rilevazioni comparative senza essere in grado di interpretarli) oppure ostenta bonomia, esortando in modi più o meno espliciti a distribuire certificati che non valgono la carta sui quali sono stampati. Non dovrebbe sorprendere nessuno che all’in- determinatezza dei traguardi corrisponda lo scollamento progressivo dei diversi elementi del sistema. Sono scontenti gli insegnanti, sono demotivati gli allievi, sono in allarme le famiglie, è critica l’opinione pubblica. Il dibattito si schiaccia su aspetti parziali, anche se in sé importanti, del funzionamento della scuola. Si è persa la sensibilità per la dimensione d’insieme, per un impegno interpretativo che definisca obiettivi di lungo periodo.
Non si può seriamente affermare che introdurre nelle scuole qualche ammennicolo tecnologico equivalga a promuovere l’innovazione della quale la scuola ha bisogno. È innovativo ciò che segna la struttura del percorso, che è in grado di accompagnare gli allievi per un buon tratto della loro esperienza di vita e pone le premesse perché possano adattarsi a realtà che al momento non siamo neanche in grado di immaginare. Gli interpreti più zelanti di un’innovazione solo strumentale trovano orecchie disposte ad ascoltarli quando affermano che la disponibilità di computer per allievo in Italia è inferiore che in altri Paesi. Il problema è che altre e più gravi condizioni di svantaggio non sono neanche prese in considerazione. Che dire delle biblioteche scolastiche? Dei laboratori di scienze? E di quelli per la realizzazione di progetti che com- portino la manipolazione di materiali grezzi? Delle collezioni naturalistiche? E via seguitando. Qualcuno si è preso la briga di vedere quale sia lo svantaggio dei nostri allievi in ciascuno dei punti elencati?
L’Unità 12.09.13