Non succede spesso che qualcuno dall’Italia sia invitato in giro per il mondo per spiegare com’è avanzato questo paese. Non di questi tempi. Sarebbe dunque solo umano se, quando è stata chiamata alla Borsa di Tel Aviv, Joyce Bigio si fosse chiesta se davvero gli investitori volevano ascoltare proprio lei. Non che Bigio non abbia qualcosa da raccontare, perché a modo suo fa parte di una generazione di pionieri. Mentre l’Italia introduceva la nuova legge per far salire la quota di donne ai vertici delle società quotate, questa manager italo-americana è entrata nel consiglio di amministrazione di Fiat Spa. Il suo ingresso nel gruppo di Torino è stato solo un passaggio di un movimento più ampio che, per una volta, sta spingendo il paese dalle posizioni di coda alle parti alte di una classifica globale. Solo un anno fa le donne nei board delle società del Fste Mib, il principale listino di Milano, erano circa il 7 per cento del totale; adesso sono già salite attorno al 20 per cento, secondo le stime dell’associazione Valore D: un progresso fulmineo per i ritmi del cambiamento in Italia, da molto sotto a un po’ sopra la media internazionale.
Anche gli israeliani volevano sapere come si fa, ma magari la loro curiosità sarebbe subito scemata se avessero avuto il colpo d’occhio di Villa d’Este l’altro ieri. Il premier Enrico Letta ha visto il panorama del convegno ed è andato su tutte le furie: «Non vedo donne e questo è insopportabile, perché l’Italia non è fatta solo di uomini», ha esclamato. Grisaglie di mezza età avanzata dominavano la platea, al punto che ancora ieri gli organizzatori del Workshop Ambrosetti non erano riusciti a calcolare la percentuale di donne in quel gruppo di 200 manager. Episodi così fanno pensare che dietro la rincorsa nei board dei gruppi di Piazza Affari c’è forse meno di quanto non sembri. Le top manager per esempio sono sotto il 10 per cento, fra i livelli più bassi al mondo. E del resto il confronto globale vive anche di volti e simboli, non solo di numeri. Negli Stati Uniti il direttore operativo di Facebook Sheryl Sandberg e Marissa Mayer, che un anno fa prese il timone di Yahoo da un’altra donna come Ursula Burns, sono più che semplici casi di successo. Sono magneti che lavorano sottilmente sulla psicologia di una nazione. Sandberg lo fa deliberatamente, senza rinunciare a un ruolo (anche) politico e ai suoi libri dedicati agli ostacoli per le carriere femminili. Niente del genere sembra dietro l’angolo in Italia. Né appare vicino il giorno in cui questo paese sarà pronto ad affidare a una donna un ruolo di primissima fila nella gestione dell’economia e del sistema finanziario. Siamo in questo indietro anche rispetto ai paesi cui ci ispiriamo di più. In Francia un leader conservatore come Nicolas Sarkozy ha chiamato Christine Lagarde come ministro dell’Economia e l’ha poi sostenuta per assicurarle il ruolo di vertice del Fondo monetario internazionale. Non che per Lagarde a Washington tutto sia facile. L’Fmi accettò che Dominique Strauss-Kahn si dedicasse ai comportamenti per i quali va famoso, e lo fece in silenzio. Invece l’ironia verso Lagarde è spesso feroce e gratuita: «Non capisce l’economia
»; «nella settimana di assemblea del Fmi va dal parrucchiere tutti i giorni»; «si lascia dettare i programmi dal suo stesso staff». Vero o falso, non era mai stato detto di nessun direttore generale del Fondo prima di lei. Neanche dei (molti) maschi e
mediocri.
Che neanche negli Stati Uniti sia facile essere donna nel sistema finanziario, del resto, lo sta sperimentando in prima persona Janet Yellen. Vicepresidente della Federal Reserve, ora candidata al posto di numero uno, Yellen è incappata in un editoriale del
Wall Street Journal e infiniti altri commenti che stendono obliquamente il dubbio sulla capacità di una donna di gestire il dollaro. Paul Krugman l’ha difesa, ma neanche il premio Nobel è riuscito a sradicare dal profondo delle menti di molti l’idea che solo un uomo può manovrare uno strumento potente come il denaro.
In questo anche la Banca centrale europea è un passo più indietro persino dell’Italia. Nel consiglio dei governatori, il gruppo di 23 persone che decide quasi tutto, non siede una sola donna: le 17 banche centrali dei paesi dell’euro esprimono tutte rappresentanti maschi e così è anche per i sei che siedono nell’esecutivo guidato da Mario Draghi. In fondo dall’inizio della storia fino a 40 anni fa, la moneta è sempre stata legata all’oro, il metallo che John Maynard Keynes definiva «un cimelio barbarico». E i barbari erano appunto tali. Draghi si è reso conto che questo squilibrio rischia di intaccare la capacità della Bce di farsi accettare da tutti, ed è corso ai ripari: ha indicato «obiettivi» – non rigide «quote» per la presenza di donne nello staff. Nel 2019 il 28 per cento dei top manager della Bce dovrebbero essere donne (oggi sono la metà), ma fra le righe dei regolamenti di Francoforte non è difficile scorgere qualche cautela nell’Eurotower. «Meglio avere semplici obiettivi – si osserva da Francoforte -. Le quote vanno applicate rigorosamente, poco importa quale sia la qualità dei candidati alle promozioni». E a parità di qualifiche fra un uomo e una donna, i criteri di genere possono entrare in gioco «potenzialmente».
Si è dunque perdonati, se dietro le scelte della Bce si leggono due timori inconfessabili. L’Eurotower sospetta che gli automatismi nelle promozioni di donne entro tempi certi portino a scegliere anche persone non qualificate (un’accusa mossa anche al primo sistema di quote applicato in Norvegia dal 2003); e i dipendenti maschi si sono innervositi perché temono di finire subordinati nelle selezioni da ora in poi.
Del resto questa non è una specialità occidentale. Le aziende con board o prime linee di manager più femminili si trovano fra i sistemi autoritari dell’Asia come Cina o Vietnam. In Vietnam le donne presero il controllo dell’economia mentre gli uomini combattevano gli americani nella giungla, e non l’hanno più ceduto. In Italia si spera non serva una guerra per avere un colpo d’occhio meno grigio nella sala di Cernobbio. Ma, per ora, non è detto.
La Repubblica 10.09.13
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“Le leggi sulle quote rosa stanno cambiando le proporzioni tra i generi nei posti di comando. Ma lentamente. E l’Italia resta un Paese con poche leader”, di Maria Novella De Luca
Un cammino faticoso. Con il rischio sempre di tornare indietro. Nonostante i “successi” delle quote rosa, nonostante le prime avanguardie femminili nei cda italiani. La platea di Cernobbio era così integralmente maschile-plurale da far sobbalzare, anche, il premier Letta. Il viaggio verso il potere delle donne in Italia procede lento, anche se la legge approvata un anno fa, e che impone nei consigli di amministrazione almeno un terzo di presenza femminile, sta gradualmente rivoluzionando i Cda delle aziende italiane. Dall’ottobre del 2012 ad oggi, il numero di donne presenti nei cda è passato dal 7 al 20 per cento. Nei 10 anni precedenti la crescita annuale si era bloccata, fermata, incollata ad un incremento dello 0,5 per cento annuo. Cioè nulla. Qualcosa di infinitesimale. Le donne, pur con curriculum eccellenti, e a meno di non essere “figlie d’arte”, restavano irrimediabilmente fuori dal cuore del potere.
Oggi qualcosa sta cambiando, il meccanismo è stato scardinato, scalzato nelle fondamenta. Ma poco è ancora visibile ad occhio nudo.
È soltanto l’inizio, avverte Alessia Mosca, parlamentare del Pd e prima firmataria della controversa legge sulle “quote rosa” nei cda. Ed erano così poche le presenze femminili al meeting di Cernobbio, appuntamento fondamentale per chi si occupa, pensa e discute di Economia, da suscitare l’amara riflessione di Enrico Letta: «In questa sala siamo tutti uomini e questo è insopportabile, perché questo Paese è fatto per metà di uomini e metà di donne e se le donne non sono in grado di avere la loro opportunità, ci perde il Paese». Tutto vero. Eppure provando a guardare là dove le donne manager si formano,
tra le organizzazioni che valorizzano il “Valore D” ci si accorge che con mille ritardi, almeno nei luoghi che contano, il varco è aperto.
Ricorda Alessia Mosca, oggi agli Affari Europei: «Perché la legge approdasse in Parlamento ci sono voluti tre anni e la tenacia trasversale ai partiti per vincere resistenze, conservazioni e diffidenze. Oggi però, dodici mesi dopo, tutte le aziende che hanno rinnovato i loro consigli di amministrazione hanno inserito il 20 per cento di presenze femminili, sono un’avanguardia ma il dato è acquisito, non si può tornare indietro». Bisogna vigilare però. Spesso si tratta di manager con pochi compiti operativi. In posizioni di serie B. E infatti la legge sulle quote rosa ha una scadenza, decadrà tra nove anni. Aggiunge Mosca: «Questo è il tempo necessario affinché la società italiana si adegui, compia una rivoluzione culturale e magari, appunto, la platea di Cernobbio cambi, e diventi metà maschi, metà femmine».
Forse, chissà. In Italia le Pari Opportunità restano spesso un sogno incompiuto. E infatti se questa norma tutela i vertici e ha rotto finalmente gli inaccessibili soffitti di cristallo, appena si scende di un gradino l’occupazione femminile mostra tutte le sue difficoltà di conciliazione, di accesso alle professioni, di ricatti di fronte alla maternità e alla vita privata.
Spiega Marisa Montegiove, presidente di Donna Manager Italia: «Lo stupore del presidente Letta non mi sorprende affatto.
Siamo veramente lontani dall’avere una presenza reale nei consigli di amministrazione e nei luoghi che contano. Come gruppo di donne e manager non abbiamo appoggiato la legge sulle quote rosa, è il merito quello che conta. Il cambiamento deve essere culturale: ci stupiamo, ma poi c’è qualcuno che chiede agli organizzatori di un meeting come quello di Cernobbio come mai invitano sempre le stesse persone, cioè uomini? E se le donne ci sono è perché rappresentano alcune dinastie industriali. Magari sono preparatissime, ma di certo non hanno dovuto lottare per arrivare lì».
Il cambiamento è lento. Eppure la crisi ha trovato più preparato il mondo femminile di quello maschile. Aggiunge Maria Montegiove: «Si è verificato il paradosso che tra due manager, un uomo e una donna, spesso le aziende abbiano sacrificato il maschio, ritenendo la manager più produttiva, flessibile, e comunque meno costosa, visto che gli stipendi delle donne sono tradizionalmente più bassi».
Le quote, dunque, hanno creato uno shock, una testuggine contro un portone inamovibile, il resto è tutto da costruire: conciliazione, welfare, pari opportunità. Infatti basta scendere di un gradino, passare dalle capitane d’azienda alle super manager, e ai quadri intermedi, per vedere quanto il “gender gap” sia ancora forte. Fino naturalmente alle donne che fanno professioni normali, con sti-
pendi normali, e combattono nel perenne tentativo di tenere tutto insieme: lavoro, figli, famiglia e magari qualche momento
per sé.
Dichiara di avere sempre un approccio di carattere positivo ai percorsi delle donne, Claudia Parzani, brillante super avvocato, madre di tre figli, presidente di Valore D: «Le quote sono soltanto un mezzo, un grimaldello, noi abbiamo deciso di avere un approccio concreto nei confronti della legge, aprendo una vera e propria scuola per quelle manager, tutte già con titoli eccellenti, che vogliano provare ad entrare nei consigli di amministrazione».
Un vero e proprio master, che non a caso si chiama “Boardroom”, attraverso il quale impadronirsi di strumenti fondamentali per candidarsi, appunto, ad entrare nei “board” delle aziende. E Valore D, associazione di 85 aziende che promuovono il valore e i talenti femminili, mette poi i curriculum di queste particolarissime studentesse a disposizione delle aziende. Quanto basta per dire che il potere in Italia comincia a diventare “rosa”? Claudia Parzani suggerisce, cautamente, di sì. «C’è ancora molto da fare per il welfare e la conciliazione, ma i primi risultati si vedono, il varco è aperto, questa legge è stata un acceleratore, poi arriverà una seconda generazione di donne che avrà meno difficoltà non solo ad entrare nei posti chiave, ma anche ad avere posizioni di reale importanza».
Una spinta ottimista, produttiva, e davvero fiduciosa nel talento delle donne. Ma non basta, avverte Alessia Mosca, ricordando la fatica di far passare la legge. «Non ci possiamo fermare. Abbiamo innescato un processo virtuoso, che può cambiare la geografia delle aziende, ma la regressione è sempre possibile. Ed è di tutte le donne che ci dobbiamo occupare, degli orari, dei congedi, del telelavoro. L’occupazione
femminile è una corsa ostacoli, è ancora oggi pagata meno di quella maschile. Il sottosegretario Maria Cecilia Guerra sta lavorando ad un pacchetto di misure proprio sulla conciliazione, sarà questa la nostra nuova sfida».
«Voglio un cambiamento di genere e generazione», ha detto ancora Letta a Cernobbio di fronte alla platea maschile plurale. E dunque la parola “genere” sbarca nei palazzi del potere. Con tutto il suo significato di differenze e similitudini. Potrebbe voler dire allora che per fare carriera, forse, le donne non dovranno più adeguarsi a modelli maschili. Magari, chissà.
La Repubblica 10.09.13