attualità, partito democratico

“Distinguere partito e governo”, di Claudio Sardo

Per uscire da una crisi bisogna cambiare i canoni e i comportamenti che della crisi sono stati la causa. Vale per le dottrine economiche che hanno prodotto questo disastro. Ma vale anche per il sistema politico, portato al collasso dalla cosiddetta seconda Repubblica. Ovviamente, la discussione è aperta su quale sia la ricetta migliore. C’è anche chi sostiene che la dottrina non vada affatto cambiata, e che debba essere applicata in modo più rigoroso, perché il difetto è stato nell’approssimazione, nell’imperfezione delle forme.

Abbiamo inseguito per due decenni il mito del modello anglosassone. È quanto mai di- stante dalla nostra cultura politica e istituzionale. Per questo lo abbiamo pure deformato. Le elezioni parlamentari sono diventate elezioni quasi-dirette del premier. La nostra Costituzione è stata violata nello spirito. E il risultato non poteva essere più penoso: governi instabili, trasformismo parlamentare in aumento, fino alla perla del Porcellum che ha sottratto al «cittadino-arbitro» persino la facoltà di scegliere deputati e senatori. Si voleva abbattere la democrazia dei partiti, ritenuta responsabile del tracollo e della corruzione della prima Repubblica. Si è finito per colpire, attraverso i partiti, il potere di incidere sugli indirizzi di governo, di partecipare a un progetto e ai suoi, sempre necessari, correttivi. Alla democrazia di indirizzo si è opposta la democrazia di mandato. I partiti non dovevano rinnovarsi: dovevano ritirarsi, ovvero ridursi a cartelli elettorali. Avevano occupato luoghi impropri dello Stato al fine di riprodurre il consenso. Ma invece di tornare ad essere motori della partecipazione, del collegamento tra società e istituzioni, i partiti dovevano consegnarsi nelle istituzioni, ovviamente in un ruolo secondario. Il governo, solo il governo è stato indicato come il vero, unico scopo della politica.

Così siamo arrivati al collasso. Non solo: siamo arrivati ad una frattura sociale e politica, che rischia di compromettere la tenuta stessa della nostra democrazia. Bisogna tornare a distinguere il partito dalla funzione di governo. Il partito partecipa con impegno al governo presente, prepara quello futuro, ma non può essere solo questo. Il partito è anzitutto un corpo intermedio, un’espressione della società civile benché organizzata al fine di incidere nelle istituzioni. La stessa sovrapposizione tra leadership di partito e leadership di governo è iscritta dentro le cause di questa crisi. Al congresso del Pd il tema scotta: ma la questione va bene al di là di uno statuto che non funziona (perché concepito auspicando uno schema bipartitico che oggi è del tutto irrealistico) e che, comunque, dovrà essere ripensato dopo le prossime primarie (qualunque sia il risultato).

Il punto è riscoprire la differenza tra partito e governo. In questo spazio c’è la riserva democratica di partecipazione e di innovazione, che oggi manca alla politica. Certo, il governo è una cosa seria. Il governo è importante anche quando, come in questo tempo, il suo potere è scarso, spesso addirittura resi- duale. Stiamo assistendo a un divorzio tra politica e potere: la finanza, le tecnocrazie, i poteri esterni limitano tremendamente il campo d’azione degli organismi democratici nazionali. Tuttavia, operare bene in quegli spazi stretti è un indice di moralità. Guai se il partito rinunciasse a giocare la sua partita nei campi in cui le scelte sono possibili, gli ordinamenti incidono sui diritti dei cittadini, l’intervento pubblico può temperare il mercato con principi di redistribuzione e di uguaglianza.

Ma il partito deve coltivare anche il futuro, il cambiamento di domani. Se il governo impone vincoli di ogni natura, il partito deve essere capace di raccogliere energie che guarda- no, pensano, discutono oltre quei vincoli. Non è una comoda, o astratta, divisione di ruoli: è in gioco il destino, la credibilità stessa della democrazia. Si guardi bene cosa sta accadendo oggi: da un lato c’è la «governabilità», co- stretta a contendersi le scarse risorse e a giocarsi la faccia su riforme parziali, che magari indicano una direzione di marcia; dall’altro lato c’è una domanda di innovazione radicale, di rottura delle compatibilità esistenti, che facilmente sfocia in movimenti anti-sistema. Ma così le speranze di cambiamento rischiano di scontrarsi, senza mediazione, contro ogni opzione riformista.

Si dirà: per evitare la contrapposizione basterà un leader di partito con grandi capacità evocative e comunicative. Ciò che dovrebbe fare il partito, può farlo lui, con il carisma personale. Ci permettiamo di dubitare. È stata l’illusione di questo ventennio: e ne abbiamo visto il fallimento. Bisogna ricostruire i partiti, rinnovandone forma e organizzazione. La ricostruzione, tuttavia, sarà impossibile dentro la dottrina dominante della seconda Repubblica e dentro lo schema istituzionale che privilegia governi e coalizioni alla soggettività di partiti con vocazione sociale. La filosofia del partito schiacciato sulla funzione di governo è la stessa che riduce la società ad un insieme di individui, che polarizza Stato e cittadini annullando i corpi intermedi. Il partito invece è funzione della democrazia di indirizzo: così la volevano i nostri costituenti. Poi qualcuno ci ha spiegato che la modernità imponeva la semplificazione: il risultato è stato l’espatrio del potere e la servitù accresciuta delle classi più deboli.

L’Unità 10.09.13