In questi giorni Silvio Berlusconi si chiede se, per Mediaset, sia meglio che lui ritiri la fiducia al Governo Letta puntando a ottenere elezioni anticipate, e poi a vincerle almeno alla Camera, prospettive entrambe incerte, o se sia meglio che lui, alla fine dell’azione dei suoi avvocati, accetti la sentenza, e dunque sostenga ancora l’inquilino di Palazzo Chigi e guidi il Pdl da casa, dato che nessuno potrà comunque impedirgli di fare politica. Che l’ex premier si occupi della «sua» azienda è umanamente comprensibile. Certo, prova una volta di più l’esistenza del conflitto d’interessi che da vent’anni inquina la politica e l’industria della comunicazione in Italia.
Ma è anche vero che, per l’elettorato del centro-destra, non si tratta di un gran problema; del resto, è solo in questa legislatura che si è formata una maggioranza parlamentare teoricamente in grado di risolvere la questione dei conflitti d’interesse (e purtroppo assai meno in grado di risolvere tante altre, non meno rilevanti questioni).
Berlusconi ha ragione di preoccuparsi per il futuro dell’azienda. Mediaset è una grande impresa italiana. Magari non darà lavoro a 40mila persone come l’ex premier vanta per impressionare gli elettori. I dipendenti del Biscione sono un sesto. E tuttavia Mediaset, con Mondadori, costituisce il principale gruppo dell’industria culturale di questo Paese. Ci sarà qualche sopracciò che storcerà il naso nel sentire associate le parole cultura e Mediaset, ritenendo cultura solo i libri dell’Adelphi, e neanche tutti. Ma nella sua storia millenaria la cultura ha sempre compreso l’alto e il basso. Ora, di una tale intrapresa imprenditoriale, nonostante le osservazioni critiche che si possono fare sulle modalità dell’esordio e sui rapporti con la politica, peraltro comuni a tanti altri grandi gruppi privati italiani ed esteri, Berlusconi può essere orgoglioso. Ma una tale intrapresa carica il suo fondatore, che resta ancora il maggior azionista, di una responsabilità speciale e totale. Il premier Berlusconi può tentare di giustificare le delusioni prodotte nel suo stesso elettorato dicendo che «gli altri» gli impediscono di governare. Sua Emittenza, invece, in Mediaset era ed è il sovrano assoluto. Dunque…
Nel 1993, quanto la scoperta di Tangentopoli stava travolgendo gli antichi protettori politici della Fininvest, Berlusconi cominciò a prospettare ai suoi più stretti collaboratori, nelle sedute del Comitato Corporate, l’idea dell’impegno politico diretto per evitare quelle che riteneva probabili e letali ritorsioni sull’azienda da parte della gioiosa macchina da guerra di Occhetto. Un anno dopo fu Forza Italia, cui seguirono il salvataggio del gruppo dai debiti e la quotazione di Mediaset in Borsa. Per vent’anni, come ha ricordato ieri su l’Unità, Rinaldo Gianola, la forza politica di Berlusconi ha offerto uno scudo contro misure regolatorie, che magari avrebbero fatto bene al Paese ma non alla sua azienda, almeno nell’immediato, e un sostegno al fatturato pubblicitario, due carte che sono sempre state ben considerate dagli analisti finanziari.
Dal 2011 il gioco è cambiato. Il politico Berlusconi può anche raccontare di una congiura demoplutogiudaica ai suoi danni. Non sarebbe il primo e, facendolo, rischia anche lui esiti sfortunati. Ma l’imprenditore misura sempre i dati di fatto e i rapporti di forza, non vive di narrazioni. E in questi due anni la Borsa ha fatto capire oltre ogni ragionevole dubbio che Berlusconi, una volta indebolita la propria reputazione internazionale, non può mettere in crisi i governi per ragioni personali senza pa- gare lo scotto sulle quotazioni di Mediaset. Il rapporto con la politica, in quest’ultima fase di Berlusconi, che tale sarebbe comunque per ragioni di anagrafe, sta diventando un handicap, dal vantaggio che era.
Berlusconi sa bene come la televisione commerciale debba fronteggiare sfide nuove e pesanti: la possibile privatizzazione di una parte almeno della Rai; l’invasione certa degli Over the top votati alle nuove piattaforme tecnologiche; i morsi di una recessione infinita che costringono a tagliare i costi, e dunque la qualità; la transizione dalla cultura televisiva dei padri fondatori, un tempo modernizzante e oggi conservatrice, a una cultura televisiva più contemporanea; il trapasso generazionale nella proprietà, tema che Berlusconi sostiene di aver risolto con i figli, ma che, come insegna l’esperienza, si verifica solo dopo il passaggio reale delle consegne, e sul campo. Se queste sono le sfide, la domanda di fondo è se Silvio Berlusconi aspirante premier possa essere ancora l’azionista adatto per l’impresa Mediaset. La mia opinione, dopo averne seguito le mosse da giornalista per quasi trent’anni, è che non lo sia più. Lo è stato, e non da impresario, come lo ha definito il più grande giornalista-editore italiano della seconda metà del Novecento, ma da imprenditore arciitaliano. Nell’autunno del 2013, se pensa al futuro, Berlusconi dovrebbe mettersi nelle condizioni politiche utili per poter pilotare la sua creatura verso assetti che ne salvino la radice industriale in autonomia, senza più le guarentigie offerte da chi, volta a volta, è stato capo del governo o dell’opposizione. Le condizioni politiche utili sono fatte di moderazione programmatica e di riposizionamento personale. È una sentenza definitiva che oggi glielo suggerisce. Domani sarà l’anagrafe. Vale per l’azienda, ma vale anche, e in chiusura lo si può dire, per la rappresentanza politica del centro-destra.
L’Unità 08.09.13