Tra Manzoni e Clooney, Cernobbio è il posto perfetto per raccontare tragedie e commedie dell’Europa di oggi. La splendida Villa d’Este si affaccia sul ramo del Lago di Como tanto caro all’autore dei Promessi Sposi ed è a pochi minuti in barca dalla villa della star di Hollywood (dall’acqua non si vede quasi niente: George ama la privacy). Ma questo weekend, l’aristocratica dimora che ospita il summit annuale dell’Ambrosetti House è il palcoscenico di lusso per uno show che sta toccando milioni di cittadini ed imprenditori europei.
Lo si potrebbe chiamare: «OK, il prezzo non è giusto». Il prezzo è il costo della stasi politica ed istituzionale che sta attanagliando l’Unione Europea, facendo soffrire società ed individui, preoccupare gli investitori e innervosire partner commerciali come gli Usa. (C’è anche un’attrazione prettamente nazionale: il tormentone sul futuro del governo Letta).
Alcuni dei grandi del pianeta riuniti a Cernobbio l’hanno buttata sull’ottimismo. Nelle sale cinquecentesche, politici e banchieri centrali hanno sfoderato un sorriso vincente alla Clooney e ricordato che un anno fa stavamo peggio, con l’euro sul baratro e gli spread alle stelle.
Che bello – dicono – che alla riunione del Gruppo dei 20 di San Pietroburgo non si sia quasi parlato di Europa. Che «il sorvegliato speciale» – come ha detto il primo ministro italiano – non sia più l’Italia e nemmeno la moneta unica ma la catastrofe siriana, i dilemmi bellici degli Usa e i problemi economici dei Paesi emergenti. Che l’euro-crisi che ci portiamo dietro da almeno tre anni sia finita.
«Qui – scrisse Stendhal del Lago di Como – tutto è nobile e commovente, e tutto parla d’amore». Ma i numeri non parlano d’amore per l’economia europea. Sì, il peggio della crisi è passato – grazie soprattutto alle mosse coraggiose, e rischiose, della Banca Centrale Europea. Ma, come mi ha detto il dirigente di una multinazionale dell’industria, «il paziente è fuori dalla terapia intensiva ma sta ancora in ospedale».
Quest’anno, l’economia della zona-euro calerà dello 0.6%, secondo un sondaggio di economisti condotto dalla Ambrosetti. Nel 2014, se va bene, crescerà ma meno dell’ 1%. Persino il moribondo Giappone fara’ di meglio (1.7% quest’anno e 1.4% l’anno prossimo). Per non parlare degli Usa che nel 2014 dovrebbero essere a quota +2.8%, o la Cina che sta «rallentando» verso il 7.6%.
Nemmeno l’Azzeccagarbugli di Manzoni riuscirebbe a far passare questi dati come una buona notizia per l’Europa. Soprattutto perché ogni 8 abitanti della zona euro c’è un disoccupato. E quella è la media: in Spagna siamo a uno su quattro.
Fa bene Jean-Claude Trichet – anche lui a Villa d’Este – a prendere una posizione opposta a quella del connazionale Stendhal. «Questo non è il momento per compiacersi», ha detto il predecessore di Draghi ad un dibattito organizzato dalla Cnn. «Abbiamo molto lavoro da fare».
La diagnosi è giusta ma la prognosi è riservata. Dopo un triennio di crisi, le soluzioni più facili sono state prese – gli americani le chiamano «low-hanging fruits», i frutti alla base dell’albero. Ora bisogna fare sforzi molto più significativi per salire sui rami più alti.
Mario Draghi non sembra voglia fare la scaletta. Dopo aver utilizzato le politiche monetarie in maniera aggressiva e non ortodossa per mantenere l’euro intatto, gli uomini del presidente della Bce sono ai limiti dei loro poteri. Il presidente sarà anche stato ribattezzato «SuperMario» ma si sta scontrando con una kryptonite di interessi politici contrastanti.
I tedeschi – con un’elezione alle porte e gran parte dell’elettorato d’umore euroscettico – non vogliono che la banca di Francoforte faccia più granché. Per non fare un assist d’oro ai partiti di protesta, Angela Merkel e il resto dell’establishment teutonico devono cancellare l’impressione che la Germania paghera sempre e comunque il conto salato degli errori europei.
I governi di mezza Europa, dal canto loro, non hanno nessuna intenzione di proseguire con l’austerità che la cancelliera vorrebbe come quid pro quo per eventuali aiuti. Con la recessione ancora presente, solo politici masochisti vorrebbero infliggere dolore a corto termine ai propri cittadini nel nome di vaghi benefici a lungo termine.
L’Italia è un caso classico. Le imposte sulle imprese sono al 68% – il più alto tasso unione e 21 punti percentuali più che negli Usa. La pressione fiscale sui lavoratori è altrettanto pesante – 42%, il doppio dell’Inghilterra. Il risultato? Le imprese non assumono, le banche non prestano, i piccoli imprenditori soffrono e l’economia è ancora in recessione. Altri Paesi come la Spagna e il Portogallo sono in simili condizioni penose.
Il contesto non si presta ad un altro giro sulle montagne russe dell’austerità.
Né i politici né la commissione Europa, né la Bce sanno come uscirne e allora fanno l’imitazione del Manzoniano Ferrer. Circondato da una folla irata, il cancelliere spagnolo fa promesse populiste e chiede al cocchiere: «Pedro, adelante con juicio».
Ovvero la paralisi politica che aumenta i costi economici.
Il calendario non aiuta. Tra il ballottaggio tedesco, il voto per il Parlamento europeo – seguito dalla scelta di una nuova Commissione – e, chissà, forse elezioni e anatre zoppe in Italia, il momento ricorda il «Batman» di Clooney – un film d’azione senza tanta azione.
Star fermi, in questo caso, non fa guadagnare tempo, ma lo fa perdere. Prima o poi, le riforme (delle pensioni, della sanità, del settore pubblico, delle tasse etc.) dovranno essere fatte. Decisioni difficili e impopolari, soprattutto da parte della Germania, dovranno essere prese.
Purtroppo, come disse Don Abbondio di se stesso: «Il coraggio uno non se lo può dare».
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.
La Stampa 08.09.13