attualità, università | ricerca

“Atenei e classifiche, il gioco inutile”, di Marino Regini*

Immaginiamo per un momento che gli inglesi, quando hanno reinventato il gioco del calcio, non avessero stabilito che una squadra può vincere, perdere o pareggiare in base alla differenza reti. In fondo lo scopo del calcio era far divertire gli spettatori, e quindi avrebbero potuto accontentarsi del fatto che le squadre giocassero bene. Facile però immaginare che dopo un pò i tifosi avrebbero detto che la propria giocava meglio delle altre, e quindi sarebbero nate le classifiche. Ma senza criteri universalmente accettati (come la differenza reti) ognuno avrebbe proposto classifiche diverse. Ad esempio, perché non basarsi per il 50 per cento sul possesso palla e per il resto sui calci d’angolo battuti? Ma altri avrebbero detto che solo gli esperti di calcio sanno quanto valgono le varie squadre, quindi meglio basarsi per il 50 per cento sulla loro opinione. E altri ancora avrebbero sostenuto che bisogna basarsi invece sul numero di palloni d’oro o di altri premi vinti dai giocatori delle varie squadre.
Ecco, questo è ciò che succede con i ranking internazionali delle università (e peggio ancora con le classifiche nazionali). Quello di Qs, i cui risultati verranno presentati il 10 settembre, si basa per il 50 per cento sull’opinione di accademici e datori di lavoro (l’equivalente degli esperti di calcio) e per il resto su criteri disparati, quali il rapporto numerico fra docenti e studenti, la percentuale di stranieri, eccetera. Quello di Shanghai, che ha presentato i suoi risultati a metà agosto, utilizza indicatori ancora più arbitrari, quali il numero di docenti o ex allievi che hanno vinto un premio Nobel (l’equivalente del pallone d’oro) o il numero di articoli pubblicati su Nature o Science. Il ranking del Times, invece, si basa soprattutto sulla quantità di ricerca svolta dai docenti e sulle entrate e la reputazione che ne derivano all’ateneo. Non c’è da stupirsi se i risultati presentati da ciascuna classifica sono molto differenti fra loro. Ma soprattutto, che senso ha mettere insieme criteri così eterogenei, basati su indicatori così discutibili, a ciascuno dei quali viene attribuito un peso del tutto arbitrario? Nessuno, se non il fatto che purtroppo sia il grande pubblico, sia i decisori politici non chiedono analisi accurate di pregi e difetti di ciascun ateneo, ma una classifica semplice che, come nel campionato di calcio, dica solo chi vince e chi perde.
Il punto è però che, a differenza delle squadre di calcio, le università non sono nate per giocare l’una contro l’altra e vincere un campionato. Sono nate invece per svolgere molte funzioni diverse: formare il «capitale umano» necessario allo sviluppo di un Paese, trasmettere il patrimonio culturale, produrre nuova conoscenza mediante la ricerca, aiutare lo sviluppo del loro territorio. Possono svolgerle bene o male, e per questo è giusto valutarle — e quindi premiarle o penalizzarle — su ciascuna di queste funzioni tenendo conto degli obiettivi che si sono date, delle risorse che hanno a disposizione, del contesto in cui operano. Ma non ha alcun senso dire chi sta in cima e chi sta in fondo a un’immaginaria classifica complessiva che mette insieme tutte queste funzioni differenti, misurandole per di più con un metro arbitrario.
Perciò, quando si leggono le classifiche di un «campionato internazionale di università», è bene ricordare che questo campionato non esiste. E che, se esistesse, sarebbe formato da squadre con tanti obiettivi diversi, non riconducibili semplicemente a vincere delle partite. E infine che, chi invece cerca di creare artificialmente un campionato formato da squadre che vincono o perdono, si scontra comunque con il problema che non esistono criteri condivisi per stabilire a chi assegnare la vittoria. La valutazione degli atenei, se condotta in modo rigoroso, è uno strumento di conoscenza utile e necessario. Le classifiche sono invece un gioco futile, che rappresenta un affare per chi lo guida ma un possibile danno per le università. Perché dal desiderio di vincere un campionato inesistente, queste sono spinte a uniformare le proprie caratteristiche a quelle che vengono premiate, anche se non sono le più importanti rispetto ai loro obiettivi specifici.
* Ordinario Università
Statale di Milano

Corriere della Sera 06.09.13