L’Accordo definitivo a Genova fra COnfindustria e Sindacati rappresenta un evento eccezionale anche se non improvviso. Eccezionale non solo in quanto esplicita una convergenza che non riguarda un singolo aspetto della politica economica o del sistema contrattuale, ma l’intera visio- ne della fuoriuscita dalla crisi dell’Italia, ed anche perché realizza una sorta di concertazione dal basso in mancanza di una iniziativa del governo.
Viene naturale confrontare questa realtà con l’unica esperienza di programmazione concertata tentata all’inizio degli anni Sessanta in Italia e la differenza salta agli occhi. Allora l’iniziativa di convocare le parti sociali fu del governo e quell’esperienza fu preceduta – basta ricordare il «Piano del lavoro» della Cgil ed il «Piano Vanoni» – ed accompagnata da un intenso ed elevato dibattito che coinvolse l’intero mondo politico: la relazione di Aldo Moro al congresso di Napoli della Dc, la nota aggiuntiva al Bilancio dello Stato di Ugo La Malfa, le elaborazioni sulle riforme di struttura di Riccardo Lombardi per citare alcuni momenti salienti. Quell’iniziativa andò incontro alla sostanziale diffidenza della Confindustria rispetto all’idea stessa della programmazione economica ed alle critiche della Cgil che riteneva il piano conclusivo troppo macroeconomico e scarsamente proiettato a cambiare la struttura economica ed a rendere più egualitaria la distribuzione del reddito. Oggi l’iniziativa non viene dalla politica, ma dalle parti sociali nella mancanza di dibattito della politica sul futuro del Paese e di adeguata attenzione da parte della stampa.
La graduale convergenza fra sindacati e Confindustria è in atto da anni, come risulta anche dalla linea generale del giornale della Confindustria Sole 24Ore e dalle elaborazioni del Centro Studi della Confindustria, e riguarda la valutazione della crisi, la critica della risposta europea, le misure per uscirne. Nessun governo finora ha pensato di usare tale convergenza come una leva formidabile per uscire dalla crisi: non lo ha fatto il governo Monti, tanto meno lo ha fatto il governo Berlusconi tutto impegnato a dividere i sindacati, non lo ha fatto finora l’attuale governo. Letta ha fatto bene a rispondere subito positivamente all’iniziativa delle parti sociali ora si tratta di vedere se questa sarà la linea del governo in quanto il complesso delle proposte contenute nel «Patto», che questo giornale ha già illustrato, puntano su di un rilancio dell’economia trainato dagli investimenti, come proposto due anni fa dal Coordinamento economico della Cgil, che non è esattamente la linea seguita finora dal governo molto centrata sulla questione Imu.
Il Pdl nel focalizzare l’attenzione del governo sull’eliminazione dell’Imu ha sostenuto che il rilancio dei consumi che ne deriverebbe sarebbe la leva per rilanciare l’economia. Questa linea non solo punta a rilanciare lo stesso modello di sviluppo in crisi, quello trainato dai consumi privati, peraltro distribuiti in modo sempre più sperequato, ma è anche illusoria: aumentare quantitativamente i consumi attraverso il bilancio pubblico è possibile solo se aumenta il deficit pubblico, ma questo non è possibile secondo gli accordi europei, fortunatamente. E invece realistico pensare che sia possibile, attraverso l’adeguata pressione dei Paesi interessati, affermare fino in fondo la «regola d’oro», la deduzione cioè dal computo del deficit delle spese relative ad investimenti fatti per realizzare gli obbiettivi fissati nei grandi progetti dell’Unione accettando magari forme di controllo da parte della Com- missione europea. Una strategia di investimenti può provocare anche un aumento dei consumi nella misura in cui, come è decisamente auspicabile, generi nuova occupazione.
Vi è un’altra leva con cui può essere alimentata questa strategia ed è la mobilitazione di parte delle enormi masse di risparmio esistenti per il finanziamento di investimenti in imprese ed in infrastrutture e si possono inventare nuova forme di partnership pubblico/ privato nel finanziamento degli investimenti. Tutto questo non avverrà semplicemente attraverso misure fiscali; qui arriviamo ad un punto cruciale. L’insuccesso dell’esperienza degli anni 60, che finì per essere accusata di aver prodotto solo un «libro dei sogni», è dovuta in grande misura al fatto che una cosa è scrivere programmi politici altra è dotare lo Stato di una effettiva capacità di programmazione strategica e di elaborare ed implementare strategie di investimento ai vari livelli. Questa capacità lo Stato italiano non l’aveva allora e non la ha oggi. Ed è il punto in discussione anche in altri Paesi che stanno puntando a rilanciare l’intervento pubblico come capacità di orientare il processo di ricollocazione del proprio sistema economico in un contesto mondiale in rapido mutamento.
Se il governo deciderà di convocare le parti sociali non dovrebbe limitarsi a registrare le proposte del Patto, ma dovrebbe allargare il confronto, coinvolgendo il Parlamento e le forze politiche, sull’architettura istituzionale e gli strumenti finanziari necessari a sorreggere un nuovo sviluppo trainato dal rilancio degli investimenti.
L’Unità 06.09.13