L’entità della sconfitta del Pd e del centrosinistra alle elezioni politiche di fine febbraio, pur essendo di primo acchito parecchio manifesta, assume dimensione storico-politica solo dopo un’attenta, ancorché in casa Pd sinora mancata, analisi del voto. È accaduto, anzitutto, che per la prima volta una regola peculiarissima dell’alternanza democratica nella sedicente Seconda repubblica sia stata violata.
Dopo le elezioni del 1994, tutti i turni elettorali successivi (1996, 2001, 2006, 2008) sono stati appannaggio della coalizione politica che, al voto immediatamente precedente, era uscita sconfitta. Nel 2013, viceversa, il fenomeno non si è ripetuto. La politica, si sa, non ha leggi, ma solo regole, con eccezioni che accorrono zelanti a confermarle.
Nel mondo occidentale la regola dell’incumbency advantage è, da molto, caso di scuola e, da prima, retaggio consolidato dell’esperienza elettorale. Nelle democrazie avanzate dell’alternanza, l’incumbent, colui che detiene la carica oggetto della contesa elettorale, gode di un vantaggio oggettivo sul suo sfidante, il challenger, che si compone di una serie di elementi: a) più alti indici di popolarità; b) benefici che derivano per via diretta dalla detenzione della carica; c) vantaggio sull’avversario nelle campagne di fund-raising.
Se l’incumbency advantage non è un’espressione del paradosso di Zenone, perché in politica accade che il challenger batta l’incumbent laddove Achille non raggiunge mai la tartaruga, è certo una delle regole meno disdette che circolino in politica.
Ebbene, in Italia, patria delle anomalie, da quando il sistema politico ha conosciuto l’alternanza democratica, la regola che l’ha contraddistinta è stata quella dell’incumbency disadvantage: chi – soggetto e/o coalizione – ha in mano le redini del governo, le perde immancabilmente in favore dell’avversario alle elezioni succcessive. Dal 1996 al 2008, un originalissimo incumbency disadvantage ha dettato legge per quattro turni elettorali di fila, diversamente da quanto abitualmente avviene altrove. Per motivazioni, ogni volta, certo peculiari, ma anche in virtù di una regola al contrario che esprime, forse meglio di altre, la cifra del fallimento della prima stagione del bipolarismo italiano.
Nel 2013, l’inattesa eccezione: l’alleanza di centrosinistra, destinata alla vittoria, non è riuscita a portare il proprio candidato premier a palazzo Chigi. Per ottenere (o non ottenere) ciò, la coalizione di centrosinistra, e il suo maggiore partito, hanno fatto registrare in voti reali il risultato peggiore della storia della Seconda repubblica: 10.047.808 di voti effettivi per la coalizione, 8.644.523 per il Pd. Rispetto al 2008: 3.641.552 voti in meno per la coalizione, 3.450.783 voti in meno per il suo maggior partito.
Rispetto al 2006, quando già alla camera era schierata la lista proto-Pd, Uniti nell’Ulivo: 8.954.790 voti in meno per la coalizione, 3.286.460 voti in meno per il maggior partito. Rispetto al 2001 – per il quale, con una legge elettorale diversa, il confronto è possibile se si considerano, per l’alleanza, il dato complessivo dei voti conquistati dal centrosinistra nei collegi uninominali e, per il partito, la somma dei voti di Ds e Margherita nella preferenza per la quota del 25 per cento di seggi da attribuire proporzionalmente – i voti in meno sono stati 5.971.580 per la coalizione e 2.898.458 nel confronto tra i voti del Pd 2013 e la somma di Ds e Margherita. Rispetto al 1996, seguendo i criteri di cui sopra, 4.399.740 voti in meno per la coalizione e 1.803.667 voti in meno nel confronto tra i voti del Pd 2013 e la somma di Pds e Ppi.
Rispetto al 1994, accertando che è impossibile avere un confronto tra le coalizioni del centrosinistra, perché nel ’94 non era presente un’alleanza di questo tipo, e limitando quindi il confronto tra i voti del Pd 2013 e la somma dei voti del Pds e del Ppi, contiamo 3.524.295 voti in meno. I numeri appena messi in fila indicano, meglio di come potrebbe farlo il solo riferimento al voto del 2008, come al centrosinistra sia potuta riuscire l’impresa di smentire la regola dell’incumbency disadvantage, che nei quattro turni elettorali precedenti l’aveva fatta da padrone.
Le cause di una sconfitta tanto eclatante non possono essere meramente ricondotte a una campagna elettorale opaca. Non si produce il peggiore risultato della storia del centrosinistra italiano bipolare sbagliando semplicemente la campagna elettorale. Il record negativo di consensi raccolti ha radici più profonde nelle irrisolte contraddizioni identitarie del Partito democratico.
*estratto da Antonio Funiciello, Sulle macerie di questo Pd, il Mulino, n. 4/2013
da Europa QUotidiano 04.09.13
1 Commento