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“Non sedurre ma servire, questo il vero potere” di Mariapia Veladiano

Capita che un docente sia accusato di avere avuto rapporti di sesso, anche violento, con sue studentesse, anche minorenni. Più d’una. Capita che lo ammetta. Più tardi la giustizia dirà tutto quel che può, dopo un processo che deve essere giusto. E intanto per ò capita che compagni e compagne di classe e di scuola difendano il professore. Bravo dicono, appassionato, innamorato della materia. Innamorato? E allora ci si chiede qualcosa.
Nelle aule come nella vita può capitare che le emozioni diventino bufera che travolge. Nella scuola di più, non solo perché ci si passa un mare di tempo e i rapporti sono stretti stretti e le interazioni necessarie. Ma anche perché le aule sono affollate di portatori privilegiati dell’emozione più potente in noi, il desiderio. Da giovani il desiderio è moltitudine. Essere visti, riconosciuti come persona che vale, amati. Esistere.
Ed è bene che le emozioni attraversino le ore di lezione. Non si trova teoria pedagogica a sostenere che l’apprendimento e il rapporto educativo funzionino meglio in un contesto di gelo relazionale. Gli strumenti critici e le emozioni ci fanno sapere il nostro valore. E insieme viene la libertà. Di non farsi aggirare, di difenderci da soprusi sociali e personali, stereotipi, trappole che ci minacciano. Scuola sta con libertà, se il patto con l’adulto funziona.
Davvero però il rapporto può tracimare in ogni momento, e la letteratura è piena di queste storie con finale a volte chissà letterariamente felice, più spesso incerto. La cronaca invece conosce soprattutto finali drammatici. Il patto stabilisce che nel contesto d’aula il confine dei ruoli è tenuto dall’adulto, che conosce, e riconosce, anche in se stesso, il potere delle emozioni, e in virtù del suo essere adulto le sa governare, anche in sé stesso. E gioca d’anticipo ogni momento, non comprime la distanza con lo studente, che non è distanza di valore, ma di ruolo e di maturità. Non si confonde con lui. Ci sono i confini. Colleghi insegnanti hanno deciso che un confine è non essere amici sui social network fino a che rimane il rapporto di scuola. Niente telefono diretto, niente sms, niente post o tweet. Altri stanno anche su questi confini. Ma conoscono l’arte della misura che non ammicca.
E poi c’è il potere. Sia pure piccolo, corroso da una considerazione sociale in caduta libera e più ancora da una carsica crisi di indotta disistima, in aula il docente porta una forma di potere, quello di riconoscere lo studente oppure no appunto, ed è il potere più forte, aiutato dal potere del voto, la promozione. Credito fra gli amici e in famiglia.
L’unico potere d’aula buono è servizio alle persone che ci sono affidate. Lo è per legge e per deontologia professionale. E invece no. Può capitare che non sia così è diventi mezzo di seduzione, sopruso. Più facile se l’insegnante è bravo. Perché il seduttore ha sempre del buono in sé, altrimenti non sedurrebbe nessuno. Ha il buono di una passione. E quello del desiderio, come i ragazzi. Non coltivato in un sé adulto e appagato ma un desiderio malato di vita. Di tutte le vite. Bisogno di esistere attraverso le vite d’altri, possedute fino all’estremoconfine. Queste cose non capitano nel deserto. C’è sempre un mondo di adulti “sani”, ciechi sordi e muti, intorno. Non tutti colpevoli d’omissione, no. Perché un genitore che trova un professore pieno di entusiasmo, generoso del suo tempo e del suo sapere, amato dai ragazzi, che vanno a scuola volentieri e sono felici, è contento, semplicemente. Certo che deve essere attento, e magari lo è, eppure non vede. Perché il seduttore seduce a trecentosessanta gradi, i genitori anche, e i ragazzi hanno il diritto di non capire la tempesta che li abita, e sono sgomenti e contenti nello stesso momento: un’attenzione malata è pur sempre un’attenzione, un insegnante sedotto è un frammento di onnipotenza nelle loro mani giovani. In un gioco di rovesciamenti che la psicoanalisi sa chiamare per nome e raccontare. Forse è per questo che i ragazzi con ostinazione difendono il docente che esce dal suo ruolo fino all’offesa dei loro corpi e della loro libertà. Perché difendono il loro essere esistiti, assoluti, unici e importanti, per un attimo a volte lungo, perché condannare il seduttore vuol dire riconoscere che l’ingresso travolgente nell’età adulta, vissuto come un posto ricevuto e riconosciuto, non c’è stato. Vuol dire precipitare di nuovo nella paura di non valere.
Però all’appello delle colpe qualcuno può ben essere chiamato. Tutti quelli che per convenienza, piaggeria, quieto vivere, ammiccante connivenza, hanno taciuto. E quelli che sulla scuola non sorvegliano. Che affidano un compito straordinario a persone la cui inadeguatezza, o malattia, colpevolmente non sanno riconoscere.

La Repubblica 03.09.13

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Quando il maestro ti conquista Il fascino del professore
di Vera Schiavazzi

Mentre la storia triste di un professore di liceo agli arresti per avere intrattenuto lunghe relazioni sessuali con due studentesse è ancora lontana dalla parola fine, migliaia di professori e di ragazzi stanno per tornare sui banchi e cominciare da capo quella che dovrebbe essere anche e forse soprattutto una relazione tra persone.
Un rapporto capace di orientare una vita, di far scegliere certi studi piuttosto che altri, di salvare dalla disperazione adolescenziale nutrendola di versi, numeri, letture. O al contrario di cancellare innocenza e fiducia. A studiare il problema è stato George Steiner. Con un approccio assai pi ù rigoroso di due film di culto come “L’attimo fuggente” di Peter Weir, interpretato da Robin Williams e ambientato nel bigotto Vermont del 1959, o de “La classe” del francese Laurent Cantet, Palma d’Oro a Cannes nel 2008. È stato lui a riconoscere la “corrente magnetica” che passa tra la cattedra e i banchi, tra il maestro e i suoi allievi. E ne vedeva i pericoli e le deviazioni, da Abelardo e Eloisa fino a Martin Heidegger e Hannah Arendt. Le sue storie sono raccolte ne “La lezione dei maestri” (Garzanti, 2004). Forse non è il caso di scomodare Socrate e Platone, Sant’Agostino o Shakespeare per raccontare in che modo il professore di Saluzzo scambiava centinaia di sms con le sue due presunte vittime.Ma il problema esiste e agita le menti dei docenti migliori in tutti i licei d’Italia.
«Per creare relazioni personali e gestirle dall’inizio alla fine occorre un livello straordinario di responsabilità e professionalità — dice Pier Cesare Rivoltella, docente di Didattica alla Cattolica di Milano, alla guida del Cermit, il centro che si occupa di insegnamento e nuove tecnologie — Il sistema scolastico italiano non è in grado di garantire questa premessa in modo generale, ma c’è una sensibilità crescente e nascono molti progetti interessanti capaci di far rinascere un dialogo corretto, anche attraverso i social network. Con l’attenzione del caso, perché questi strumenti presuppongono una relazione paritetica che non è quella propria dell’insegnamento».
«Docente e studente sono due parole bruttissime, io preferisco maestro e allievo — dice Chiesa — Il professore non dev’essere l’amicone dei ragazzi, ma deve conquistarsi la stima sul campo, partendo da tre regole-chiave: ascolto reciproco e reale, rispetto dell’altro per quello che è, fiducia con la quale ci si deve rivolgere al maestro perché le cose che ti chiede, compiti compresi, sono davvero utili. Fatte queste tre cose si può iniziare davvero a insegnare ». La carenza di relazione, il ripiegare su se stessi facendo ilminimo indispensabile da una parte e dall’altra sono, per Chiesa, il vero male delle scuole superiori italiane. «E certo — si rammarica — vicende come quella di Saluzzo non aiutano, anzi, possono intimorire molti insegnanti spingendoli a spersonalizzare ancora di più il loro lavoro».
Le regole non sono soltanto un problema nostrano: «Non si devono confondere norme culturali con altre che invece sono etiche – dice Bruce Weinstein, autore di un manuale sul tema rivolto ai ragazzi in uscita per il Castoro nell’edizione italiana, “E se nessuno mi becca?” – Esistono principi relativi, mutevoli da paese a paese, per esempio come ci si deve vestire a scuola, e altri universalmente inviolabili. Uno di questi è il sesso tra insegnante e alunno. È un limite che non va mai travalicato ». Non solo: «Nella relazione adulto/ragazzo c’è sempre in gioco la gestione del potere. E l’adulto non deve mai abusare di questo potere, anche semplicemente nel modo in cui si rivolge, parla, insegna o punisce un suo studente », osserva Weinstein, mettendo (involontariamente) il dito nella piaga. «Un allievo non è tuo figlio, e tuttavia di lui ti devi far carico a 360 gradi – riflette Fabio Fiore, professore di storia e filosofia al “Newton” di Chivasso dove è in corso una sperimentazione che punta sulle famiglie e sui nuovi media per ricucire lo strappo – Il carisma? Se è troppo può essere un pericolo che sbilancia la relazione. Il fatto è che sono saltati i rapporti tra generazioni, i confini dell’autorità non sono più chiari, la relazione rischia di essere opaca. Per salire in cattedra servirebbe un lungo tirocinio psicologico, inclusa qualche lezione sulla sessualità. Ma ci sono confini che non si possono scavalcare».
Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra, docente, uno tra i più autorevoli esperti italiani a occuparsi di adolescenza, ora lavora al progetto Campus, undici scuole superiori di Trento che si sono unite per formare i professori a essere tutor e a seguire individualmente cinque studenti a testa anche fuori dall’aula. «I ragazzi che hanno carenze affettive possono cercare sicurezza e modelli nel professore più facilmente di altri — sostiene Pietropolli Charmet — Ma la scuola comincia a porsi seriamente l’o-biettivo di dilatare la relazione, andando al di là della semplice lezione. I ragazzi di oggi non hanno paura del professore e non si sentono in colpa, portano in aula il corpo, la disperazione, la solitudine, la violenza, tutto. Chi è in cattedra deve mediare tra loro e un sistema di regole scolastiche che senza relazione umana non ha senso». È possibile farlo senza troppi rischi? «La scuola — risponde lo psichiatra — è organizzata nel senso opposto, per impedire i rapporti personali, e guarda con sospetto a chi parla troppo con gli studenti, a tu per tu. È un tabù che deve cadere. I tutor lavorano con l’aiuto di una scheda, annotanoogni colloquio e poi lo condividono con gli altri, sapendo che entrare nella relazione a due significa aprire un coperchio, e che spesso è l’adolescente per primo a proporsi, a chiedere il numero di telefono, a scrivere lettere e messaggi».
Paolo Mattana, docente di Filosofia dell’educazione alla Bicocca e autore di “Caro Insegnante” per Franco Angeli è la voce dissonante nel dibattito. «La scuola è oggi un luogo di reclusione per bambini e ragazzi — sostiene — come spiegava già Foucault. Si potrebbe anche tollerare, ma il fatto è che non funziona e produce giovani del tutto disinteressati alla cultura e all’etica.Possiamo tornare a appassionarli e a appassionarci all’insegnamento se c’è un interesse autentico, un piacere, un eros che non può venire negato proprio nel rapporto con ragazzi che scoprono la sessualità che si vorrebbe cancellare. Lo chiamo eros, e non “affettività” perché sarebbe ipocrita. E penso che si più rischioso negarlo e nasconderlo che dichiararlo. Il vero scandalo è l’assenza di un’educazione alla sessualit à nella scuola italiana di oggi. Se insegniamo senza passione rubiamo la loro vita, li rendiamo catatonici e non dobbiamo stupirci se finita la scuola bruciano o stracciano i libri».
Non solo libri, appunti, compiti a casa, voti in pagella. Ma anche i gesti, la voce, la fascinazione, la capacità di creare un transfert tra allievo e maestro che somiglia da vicino a quello tra lo psicoanalista e il suo paziente. «Ogni mattina entrando in una classe di liceo mi devo chiedere come si conquista la stima degli studenti, che non è scontata come quella che i bambini ti regalano alle elementari. Ma naturalmente se affascini puoi sbagliare, ci vuole capacità e responsabilità per costruire una vera relazione tra persone, al di là della cattedra». Domenico Chiesa è un professore di lungo corso, tra i leader nazionali del Cidi, il Centro di iniziativa democratica degli insegnanti. Pochi mesi fa era al “Soleri” di Saluzzo nei panni di formatore, per parlare proprio di rapporti umani tra adulti e ragazzi, tra chi insegna e chi deve imparare. Con tutti i rischi del caso.

La Repubblica 03.09.13

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