Che congresso vogliamo fare? Intanto alla faccia di un mondo politico e giornalistico che vive solo solo scagliando fango contro il Pd, si deve riconoscere che questo partito esiste. Eccome se esiste. Basta guardare alla vitalità e alle speranze che si esprimono nelle nostre assemblee. Pongo però un problema. Qual è la realtà da cui partire? Parlo di quello stato di cose che, al di là delle persone, ci mette alla prova e interroga quel grumo di cultura politica, di storia e di passioni che si chiama un partito.
E che ridefinisce il suo ruolo reale, non in astratto e non solo tatticamente ma di fronte all’oggi, cioè a una situazione che è ben più di una crisi, è un passaggio davvero cruciale della storia repubblicana. Stiamo attenti a non sbagliare sulla realtà che ci sfida, essendoci solo un esile crinale che separa una crisi politica dall’esplosione di una crisi di regime. Basta immaginare che Berlusconi, per sopravvivere, riesca a trascinare il Paese in una elezione anticipata giocata ancora col «porcellum». Non è una fantasia, è l’ipotesi verso cui spingono metà dei suoi cortigiani. La campagna elettorale sarebbe feroce, ben più che uno scontro tra destra e sinistra. Sarebbe inevitabilmente una scelta di regime politico. La vittoria del Cavaliere in nome del suo rifiuto della legge sarebbe la tragica sanzione del fatto che l’Italia non è più una democrazia rappresentativa basata sulla legge e sui diritti uguali ma uno strano regime populista di tipo «salazariano», (che poi non sarebbe una assoluta novità nella storia italiana).
Spero, naturalmente che ciò non avverrà. Ma squadernata davanti ai nostri occhi c’è la questione delle questioni, cioè il fatto che la lunga crisi, da anni irrisolta, del sistema politico, aggravata da un assetto sociale sempre me- no sostenibile e da fenomeni di degrado anche morale e intellettuale, si sta trasformando in una vera e propria crisi di regime. Questa è la posta in gioco. È molto alta. Per affrontarla occorrono uomini forti non ossessionati del giorno per giorno, molto determinati, capaci di chiamare il nostro popolo alla lotta, anche dura, per una ricostruzione della democrazia italiana. Perciò detto – tra parentesi – a me sembra molto importante la tenuta del governo Letta. Ha subito anche dei compromessi, ma ha impedito che l’Italia venga buttata fuori dall’Europa e che finisca ai margini del mondo. Non è poco. Trovo perciò non solo ingiusta ma ridicola l’accusa al Pd di voler perpetuare le «larghe intese» con Berlusconi. Ma dove sono queste «larghe intese»? Su che cosa si stanno facendo se siamo a un passo da una guerra civile? Per piacere, c’è un limite alla mala fede e alla demagogia.
Ma se vogliamo che il Pd rialzi la testa, bisogna uscire da questo singolare paradosso. Da un lato questo partito è tuttora il maggiore deposito di storia e di valori che esiste a sinistra. Dall’altro lato sembra una specie di spazio vuoto occupato da fazioni in lotta tra loro. Il Pd non è terra di conquista. È vero, ha molto sbagliato ma se si guarda alla realtà, si scopre che questo partito, di fatto, è più che mai il perno dello scontro cruciale in atto per la tenuta o meno del sistema. Piaccio o no, è il maggiore ostacolo rispetto alla disperata tentazione di Berlusconi di rompere l’ordine costituzionale e di sopravvivere a costo di una catastrofe. Altro che «inciuci». Bisogna smetterla di confondere la politica con la propaganda ed è l’ora di ridare alla nostra gente l’orgoglio del combattente che sa a che gioco sta giocando.
Detto questo credo anch’io che sia giunto il tempo di guardare avanti e di tornare a dare la parola alla politica e non solo ai magistrati e ai giuristi. Tenere fermo sui principi, non nascondersi i pericoli che incombono ma vedere anche le nuove possibilità e i nuovi scenari che si aprono. L’Italia sta cambiando e Berlusconi è ormai azzoppato irrimediabilmente. Quali che siano le sue reazioni e la fedeltà dei suoi dipendenti, quale che sia quel tanto di consenso popolare che conserva, nonché il potere enorme del denaro, il controllo delle tv e dei giornali, le sue relazioni con certi grandi interessi, nulla potrà impedire una crisi di quello strano blocco quale è stata finora la destra ita-iana: un coacervo di moderati e di reazionari, di culture conservatrice di ispirazione liberale che convivono con tutti i populismi, anche quelle di matrice sovversiva, addirittura razzisti e fascisti, accanto a uomini di Comunione e Liberazione. Un coacervo che è stato finora tenuto insieme da che cosa? Dall’abilità di Berlusconi certamente ma, al fondo, dal fatto che la borghesia italiana non esiste, almeno nel senso che non ha un volto nazionale, vive nella paura che qualcuno tocchi quella che Verga chiamava «la roba». Ma soprattutto non ha e da tempo una sua visione dell’Italia, non è capace di dare a questo Paese una identità. Al fondo, a me sembra questo il grande problema storico-politico che il tramonto di Berlusconi ha riaperto. Il problema dell’egemonia. Si è spalancata una autostrada davanti al Pd ma alla condizione che esso riesca a ricostruirsi come partito del lavoro e della nazione, e non una stanca riedizione delle vecchie sinistre laiche e cattoliche. Ecco cosa intendo dire quando auspico un ritorno alla grande politica. Non solo chiedere al governo di fare «qualcosa di sinistra» ma pensare la nostra prospettiva di partito.
Dunque, che congresso vogliamo fare? Il compito nostro non è quello di essere una appendice subalterna e passiva del governo. La tenuta del governo è fondamentale, ma è vero anche che il governo non tiene a lungo se il sistema Paese non si rinnova e se non viene in campo una visione del futuro, una diversa idea di società. La domanda che mi inquieta è con che tipo di partito usciamo da questa assise. Io credo che la società di oggi, esattamente la società degli individui chiede di essere governata non più soltanto dai mercati ma da nuove strutture politiche. Il nuovo non è il ritorno al liberismo (fallito) o la formazione di una ennesima organizzazione elettorale costruita intorno alla popolarità di un capo. È certamente il bisogno di un partito diverso da quello del passato ma nel senso – io penso – che si organizzi meno come strumento di potere e più come fattore guida, anche morale della comunità. Un partito più unitario e più largo, diverso dal passato ma non meno radicale, se è vero che siamo in presenza di società che certamente sono molto più di prima società di individui ma nella quale il capitale che alimenta lo sviluppo non può essere più costituito dalle rendite finanziarie ma dalle capacità umane e quindi dall’insieme dei rapporti personali e di vita. Una cosa è certa. È giunto il tempo di ridefinire i beni comuni e le linee di evoluzione della società a fronte di fatti enormi (l’immenso potere di ristrette oligarchie, la irrilevanza del cittadino e dei diritti democratici, il ruolo della scienza e l’uso delle risorse naturali) i quali rimettono in gioco non solo i governi ma la società. Si tratta di ridefinire i principi etici sulla cui base stare insieme e le nuove responsabilità verso la comunità.
È sulla base di queste considerazioni che io mi chiedo se basta un «uomo solo al coman- do» oppure se occorre favorire soprattutto la formazione di un nuovo gruppo dirigente di alto livello. Questo dovrà esistere in ogni caso.
L’Unità 03.09.13
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