La migliore notizia è la reazione positiva dei mercati. L’abolizione dell’Imu è solo parziale, per la seconda rata se ne riparlerà, ma intanto chi acquista o vende titoli nelle sale operative di tutto il mondo ieri ha comprato. I valori di Borsa sono saliti, lo spread con i Bund si è ridotto, le aste dei BTp a cinque e dieci anni sono andate in porto. Non grandi spostamenti, ma quello che conta è il segnale. I mercati hanno ribadito, innanzitutto, il loro apprezzamento per tutto ciò che va nella direzione della stabilità del Governo. Lunedì scorso, dopo i tam tam del weekend sulla crisi, avevano punito Piazza Affari con un meno 2,1% (e il titolo Mediaset con un meno 6%); ieri, dopo che Letta ha potuto affermare che il suo Esecutivo «non ha più scadenza», hanno risposto premiando il Mib con un +1% (e Mediaset con un +4,8). Indicazioni chiare, di cui lo stesso Berlusconi non può che tener conto.
Ma c’è anche un altro segnale che va colto in quei «più» negli indici. In passato i mercati ci hanno premiato quando venivano introdotte nuove tasse, perché queste erano il segnale di un consolidamento dei conti pubblici. E questo secondo aspetto era prioritario, nel loro giudizio, rispetto al freno sul Pil che ogni nuova imposta comporta.
Oggi invece apprezzano il superamento di una tassa, mettendo sullo sfondo l’impatto che questo potrebbe avere sul rapporto deficit/Pil. Evidentemente l’effetto di fiducia e crescita sull’economia reale conta di più rispetto a un’interpretazione iper-rigoristica della solidità di bilancio.
I mercati oggi percepiscono che il rischio Italia non è tanto legato al deficit o al debito in quanto tali, ma nella loro interazione con una crescita che fatica a ripartire. La priorità italiana è quindi nella capacità di agganciare i refoli di ripresa che intorno a noi cominciano a soffiare. Niente di nuovo per chi ha i piedi piantati nella realtà delle imprese e dei lavoratori del nostro Paese. La novità è che adesso ce lo dicono con chiarezza anche i mercati.
Sarebbe paradossale, perciò, se l’Europa dovesse attestarsi su una trincea di retroguardia, nel valutare con occhiuta logica ragionieristica e astrattamente rigorista le prossime mosse dell’Italia.
Ma ancora di più questo segnale che arriva dai mercati va colto dal Governo. Letta finora si è mosso con intelligenza, ha fatto alcune cose giuste, ma ha anche molto rinviato, soprattutto sui nodi strutturali della crescita economica. La legge di stabilità è diventata così una sorte di totem, il sacro Graal di quanto non si aveva la forza politica di affrontare subito. Ora però ci siamo. Da domani non ci sono più alibi.
L’azione di governo, e il dibattito pubblico, finora concentrati su Imu e Iva, devono fare quel salto di qualità necessario ad accompagnare l’Italia al tavolo della ripresa internazionale che – Siria permettendo – si comincia a profilare. La ricetta è fin troppo nota. Al primo punto la riduzione di quel cuneo fiscale al 53,8 per cento che, pesando contemporaneamente sui lavoratori e sulle imprese, frena pesantemente i consumi, la competitività e, quindi, la possibilità di crescere del Paese. Un taglio che, nella sua entità, non deve essere solo simbolico e che deve essere collegato al rilancio della produttività, vero nodo italiano (se ne era parlato a Cernobbio l’anno scorso come il dato su cui l’Italia aveva la tendenza peggiore d’Europa, se ne riparlerà a Cernobbio la settimana prossima esattamente come il dato su cui l’Italia ha la tendenza peggiore d’Europa).
Proprio perché non basterà un taglio simbolico, la copertura va individuata con serietà rilanciando quella spending review che nel passaggio tra governi rischia di sparire dai radar. Anche qui i dati sono conosciuti: 800 miliardi di spesa pubblica, con quella intermedia per beni e servizi che vale ancora 145 miliardi. È positivo che il ministro Saccomanni, mercoledì in conferenza stampa, abbia riaperto questo capitolo. Ma è tempo di risultati (mirati, non lineari) dopo tanto parlare. Così come sarebbe bene non lasciare relegati al dibattito estivo gli impegni presi sulle privatizzazioni.
Infrastrutture e credito sono gli altri temi prioritari su cui muoversi. Dagli investimenti cofinanziati dall’Unione europea, alle agevolazioni fiscali per riattivare gli investimenti privati, al rafforzamento delle garanzie per favorire l’accesso al credito delle Pmi. La coperta della finanza pubblica resta molto corta. Ma proprio per questo bisogna sfruttare tutti i margini possibili di flessibilità e aprirsene di nuovi per allungare quella coperta.
Stabilità e credibilità del governo sono perciò risorse importanti, purché vengano spese per “fare” e per ottenere con determinazione dall’Europa quell’apertura verso la crescita che in passato è mancata. Il tempo è ora. E il segnale che ieri è venuto dai mercati può essere di aiuto.
Il Sole 24 Ore 30.08.13