I venti di guerra sono tornati a soffiare violentemente verso la Siria. Il discorso del segretario di Stato americano John Kerry, pronunciato ieri, aveva tutta l’aria di un ultimatum e sembrava preannunciare una decisione già presa. Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia nel giro di 48 procederanno probabilmente ad attaccare la Siria. Ma se l’intervento militare è ormai scontato, non si riescono a comprendere le finalità e le modalità dell’attacco.
Secondo le ultime informazioni si procederebbe con bombardamenti dall’aria e dal mare, utilizzando droni e missili, nell’intento di creare una no fly zone come avvenne con l’Iraq di Saddam Hussein. Ma è proprio il precedente dell’Iraq che desta le maggiori perplessità sia per quanto riguarda la solidità delle prove esibite o ancora da esibire sull’uso da parte dell’esercito siriano di armi chimiche, sia per quanto riguarda gli obiettivi che si intenderebbero perseguire nei confronti del regime di Damasco, facendo ricorso alla forza.
Ancora una volta la politica medio orientale americana, apparsa inconsistente e contraddittoria di fronte ai recenti avvenimenti in Egitto, sembra destinata a finire in un vicolo cieco. La decisione di intervenire al di fuori di una risoluzione del Consiglio di sicurezza, come fu fatto per il Kossovo, appare estremamente pericoloso per la stabilità di tutta la regione. Le opzioni militari al buio hanno avuto sempre effetti devastanti, come è avvenuto in Iraq, in Afghanistan e più recentemente in Libia.
Peraltro il quadro diplomatico si presenta tuttora fluido e confuso. In prima linea con Obama si è schierato Cameron, confermando la Gran Bretagna come il migliore compagno di ventura degli Stati Uniti nelle imprese militari. Sul fronte interventista si muove anche il primo ministro turco Erdogan, interessato a accrescere l’influenza di Ankara sulla Siria e soprattutto preoccupato di tenere sotto controllo i curdi siriani e prevenire eventuali movimenti indipendentisti. Hollande, da parte sua, rivendicando il ruolo di primo piano storicamente svolto dalla Francia in Siria, si è dichiarato pronto a intervenire. Ancora titubante l’atteggiamento tedesco, in considerazione anche delle elezioni ormai imminenti, ma non è escluso che Angela Merkel decida in qualche modo di partecipare senza impegnare direttamente uomini e mezzi,
Quanto all’Italia, il ministro degli Esteri Bonino lascia intendere che il nostro Paese non interverrebbe senza una copertura dell’Onu, ma la decisione definitiva sarà assunta oggi dal Consiglio supremo di sicurezza e difesa. Sul fronte mediorientale sono pronti a dare il loro sostegno l’Arabia saudita ed alcuni Paesi del Golfo.
Ma a questo possibile schieramento si oppone decisamente la Russia di Putin e la Cina che difficilmente consentirebbero un intervento con una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Molto prudente appare la posizione iraniana, che propende per la ricerca di una soluzione diplomatica. Ma, nonostante gli inviti alla prudenza provenienti da più parti e gli appelli al negoziato del segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon, l’attacco non sembra più rinviabile. Le parole di John Kerry sono state molto eloquenti: con l’uso delle armi chimiche (comprovato dalle ispezioni, secondo gli Usa), Damasco ha superato la red line fissata dall’amministrazione americana. Eppure sono passati solo pochi mesi dal G8 tenutosi in Irlanda del nord nel giugno scorso. In quell’occasione, dopo un aspro confronto tra Obama e Putin sulla sorte da riservare a Bashar Assad, era stata lanciata la proposta di convocare una conferenza internazionale – Ginevra 2 – mirante alla pacificazione della Siria con la partecipazione delle maggiori potenze regionali interessate, ivi compreso l’Iran e aperta alle forze rappresentative dei ribelli. In pochi mesi tutto questo è stato dimenticato e si profila all’orizzonte un intervento militare, che qualche autorevole commentatore ha definito uno sparo nel buio.
Lo scenario di guerra in Siria ha peraltro fatto scomparire dai radar dell’informazione la situazione egiziana, togliendo dall’imbarazzo gli Usa e gli alleati europei sulla linea da seguire nei confronti del golpe dei militari guidati dal generale Al Sissi. Un eventuale intervento in Siria, tanto più senza la copertura Onu, potrebbe aprire un pericoloso confronto russo-americano. Per i russi il porto di Tartous è l’unica base mediterranea disponibile e difficilmente potrebbero rinunciarvi. Il loro appoggio al regime di Assad potrebbe divenire più assertivo e incondizionato, come potrebbe essere ridimensionato l’appoggio ai ribelli da parte dell’Arabia saudita e dei Paesi del Golfo, preoccupati delle reazioni di Hamas e dei movimenti Jihadisti.
La situazione medio orientale si va complicando: in Egitto, in Tunisia, in Libano, in Libia prevale l’instabilità politica e sociale. Il confronto politico religioso tra sunniti e sciiti e tra le diverse fazioni all’interno dei due gruppi, diviene sempre più teso e incontrollabile. In questa situazione è difficile comprendere a cosa servirebbe un intervento militare se non a provocare una deflagrazione di violenza in tutta l’area con un accresciuto rischio per i Paesi europei. La minaccia della forza dovrebbe essere utilizzata per portare i contendenti al tavolo della pace e dovrebbe essere soprattutto l’Europa a svolgere questo ruolo.
L’Unità 28.08.13