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“L’America indispensabile”, di Lucio Caracciolo

Riprendere la misura di se stessi non è facile, specie dopo aver tanto creduto, con ottime ragioni, nella propria superiore potenza. Eppure è questo il filo rosso con cui Barack Obama ha finora tessuto la sua politica estera, nella consapevolezza che l’età aurea del presunto “mondo unipolare” è trascorsa. Obiettivo: districare gli Stati Uniti dalle disastrose guerre di Bush figlio. Guerre che nell’illusione di cambiare la faccia del Medio Oriente con un paio di passeggiate militari avevano sprofondato il prestigio dell’America a un grado intollerabile per chi si considera Numero Uno. Di qui il disingaggio dall’Iraq (completato) e dall’Afghanistan (in corso). E la parola d’ordine del “perno asiatico” – occupiamoci del vero rivale, la Cina, per il resto non abbiamo tempo né denaro.
Tutto molto logico. Quasi cartesiano. Troppo, per il disordinato mondo di oggi. Il Medio Oriente, che Obama voleva cacciare dalla porta, rientra dalla finestra. Continuare a ignorarlo, o a subappaltarne le convulsioni ai velleitari alleati europei e a non disinteressati attori locali che usano il disimpegno americano per fini propri, si sta rivelando un boomerang. Dopo aver benedetto alternativamente – in spregio del principio di non contraddizione – tutti i vincitori di turno in Egitto, offerto malvolentieri una mano all’avventura franco-inglese in Libia e aver delimitato il perimetro della “guerra al terrorismo” concentrandola su droni, intelligence e operazioni mirate, l’emergenza Siria pone Obama con le spalle al muro. Può continuare l’America a declassare a ciclone in transito lo tsunami che da due anni e mezzo agita l’universo arabo e musulmano, in nome delle priorità domestiche e dell’attenzione privilegiata all’Asia-Pacifico? Se no, che cosa fare?
Dopo centomila morti passati in cavalleria, quasi fossero una calamità naturale, oggi in Siria la Casa Bianca fa i conti con l’ambiguità della propria retorica. Quella che costringe Obama, in nome dell’idea degli Stati Uniti “nazione indispensabile”, cui nessun leader americano può abdicare senza rinnegare la propria missione, a conciliare l’inconciliabile: l’intima prudenza e la consapevolezza delle scarse risorse a disposizione – i politologi lo chiamano realismo – con l’inno alla grandezza e alle responsabilità della superpotenza benevola – il costitutivo idealismo della repubblica a stelle e strisce. È a questa forse irrinunciabile doppiezza del proprio approccio al mondo che Obama si piegò quando avvertì il regime di Damasco che l’uso di armi chimiche avrebbe significato varcare la soglia oltre la quale Washington avrebbe dovuto fare qualcosa. Già, ma che cosa?
Non sapremo mai con assoluta certezza chi ha impiegato agenti neurotossici contro civili inermi, se il macellaio di Damasco o i suoi nemici più feroci, afferenti alle cellule jihadiste che hanno stravolto i caratteri originari (immaginari?) della rivolta siriana. O forse entrambi, come sosteneva mesi fa Carla Del Ponte. Poco importa. Obama ha deciso che la responsabilità di tanto orrore è comunque del regime.
Ieri sera il segretario di Stato John Kerry ha preparato il pubblico americano alla rappresaglia. Al Pentagono si rivedono i dettagli degli attacchi “chirurgici” contro il clan degli al-Asad, pianificati da tempo. Si evoca il “modello Kosovo”, quasi si potesse replicare nel cuore del Medio Oriente in fiamme la non brillante operazione aerea contro Milosevic, senza estendere il conflitto.
In Kosovo la Nato fu l’aviazione dei ribelli kosovaro-albanesi, riabilitati d’un colpo da terroristi a combattenti per la libertà onde legittimarli ai compiti di fanteria che le potenze atlantiche volevano risparmiare ai propri soldati. Stavolta gli americani e alcuni alleati – i tedeschi paiono al solito sfilarsi, su noi italiani non abbiamo certezze – potrebbero limitarsi a una pioggia di missili e alle incursioni dei droni. E poi? Se non bastassero ad abbattere il dittatore, dovremmo trattare con lui, come con Milosevic? E se bastassero, dovremmo applaudire il tagliagole jihadista che ne prendesse il posto, o assistere alla resa dei conti fra le fazioni che si scannano in ciò che resta della Siria, acconciandoci a formalizzarne la spartizione in stile balcanico? Oppure americani e altri occidentali, fors’anche musulmani, dovrebbero mettere gli stivali per terra, finendo risucchiati nell’epicentro siriano della guerra civile islamica che oppone Iran e Arabia Saudita, con i rispettivi satelliti? E Israele starà a guardare, o vorrà profittarne per assestare un serio colpo agli ayatollah? Quanto a Teheran, si adatterà a perdere il suo sbocco sul Mediterraneo?
Non è dunque chiaro – probabilmente nemmeno a Obama – quale strategia sottenda la rappresaglia che dovrebbe colpire Damasco. In ogni caso, quale che sia l’esito dell’azione militare americana e/o internazionale, niente e nessuno potrà poi risparmiarci la fatica di un arduo compromesso che coinvolga le parti in conflitto, siriane o meno. O la vergognosa ma almeno sincera ammissione di non saper come imporre la fine del massacro.
Quando evocò la “linea rossa” delle armi chimiche, Obama diede un ultimatum a se stesso. Oggi forse non lo rifarebbe. Le incertezze di questi giorni, fra accenni minacciosi e assicurazioni che nulla è deciso, segnalano la sua sofferenza anche personale. Ora, sotto la pressione del “bisogna fare qualcosa”, il presidente inclina verso un’operazione militare limitata. Per salvare la faccia, non per imporre una soluzione politica di cui non ha le chiavi. Così confermando quanto poco può l’America per sedare l’incendio mediorientale. E rischiando di porla presto di fronte a uno scomodo bivio: escalation o ritirata.
Quanto a noi europei, forse un giorno scopriremo che l’“armiamoci e partite” – specialità francese per cui si va alla guerra (vedi Libia) perché tanto la vinceremo grazie agli americani – è gioco troppo pericoloso se praticato nel cortile di casa. E se l’America non vuole, non sa o non può andare fino in fondo.

La Repubblica 27.08.13