Supponendo che anche l’Italia sia vicina alla ripresa, e vi sono ragioni per dubitarne, molti esperti ritengono che la riduzione dalla disoccupazione sarà ritardata e che, nell’attesa, aumenterà ancora. Nel passato, il ritardo era di un anno circa rispetto alla crescita, e poiché la crisi di oggi è più severa di quelle del passato, il ritardo, si pensa, sarà più lungo. Da qui nasce la preoccupazione che, nel frattempo, gli italiani non ne possano più e che si prospetti un periodo di ribellioni sociali. Il pericolo c’è, e abbiamo già sperimentato che si trova sempre qualcuno capace di provocarne l’esplosione con le opportune demagogie. L’Italia è ormai diventata un Paese nel quale è massima la precarietà della forza lavoro; perfino il provvedimento per consentire la riproduzione dei contratti a tempo determinato – per evitare altri licenziamenti – dimostra che ci si è rassegnati alla precarietà come una struttura permanente e pervasivi. Non solo le imprese ma anche parti politiche e perfino sindacali, ritengono che se l’occupazione deve aumentare, allora la precarietà – che per pudore si chiama flessibilità – è necessario diventi regola e non più eccezione. La precarietà/flessibilità, però, altera profondamente sia le istituzioni del mercato della forza lavoro sia la cultura del lavoro. Il precario è immerso in un universo concorrenziale per posti di lavoro che sono «probabilisticamente» alla sua portata, ed è spinto a ritenere che, se trova un posto, è merito suo, non certo del sindacato o delle leggi in vigore. Di conseguenza, i lavoratori a tempo determinato, i cocopro, le partite Iva, perfino i professionisti, trovano insopportabile che esista una parte dei lavoratori con contratti a tempo indeterminato, che non subiscono la concorrenza degli altri lavoratori, che non devono sottostare al potere dell’impresa e, perciò, possono difendere la loro dignità. Il nuovo occupato flessibile è così diventato tanto più individualista quanto più è lontano da un posto di lavoro stabile, e ciò lo rende culturalmente simile al suo datore di lavoro, anch’egli in concorrenza: non penso si tratti della sindrome di Stoccolma, perché il precario può sempre andarsene e, per quanto difficile, trovare un altro lavoro precario; certo, aspirerà sempre ad un lavoro a tempo indeterminato, ma per molti questa aspettativa è ormai sparita dalle probabilità e, in qualche caso, anche dai desideri. Negli Stati Uniti, dopo Reagan, il mercato della forza lavoro ha queste caratteristiche, anche nelle professioni qualificate: ma il partito democratico ha il suo fondamento nella politica per la piena occupazione, che riduce il rischio della flessibiltà, e «occupy Wall Street» non ha retto al miglioramento dovuto alla politica di Obama. La soluzione che da tanti anni ci viene proposta, anche a sinistra, è la flexicurity, adottata in alcuni paesi nordici: mercato flessibile ma reddito protetto. Non so se si intende quanto retriva sia questa politica, perché il generoso sussidio (che deve essere tale da mantenere lo standard di vita del lavoratore flessibile – è un reddito «medio» e non minimo) non deve nulla al sindacato, che così diventa irrilevante, perché perde iscritti e non ha più la forza per strappare un’occupazione stabile per tutti. La flexicurity ha, poi, senso solo se l’economia è vicina alla piena occupazione; se, invece, è in crisi o stagna, la disoccupazione del precario diventa lunga e il peso del sussidio sulla finanza pubblica insostenibile, riducendo questa politica ad un mero sussidio di disoccupazione Il nocciolo della questione è dunque la piena occupazione e il pieno utilizzo della forza lavoro o, se si vuole, un’economia che cresce così da assicurare l’una e l’altro: il patto del lavoro, quando il mercato è flessibile, consiste proprio nel dare massima priorità all’occupazione, che fa prevalere le dimissioni sui licenziamenti, ricostruisce il potere contrattuale del sindacato e, come conseguenza, migliora le condizioni di lavoro – compresa la riduzione della stessa precarietà. Così, fino a che non ci daremo un assetto politico capace di muovere il Paese verso la piena occupazione, vivremo con la precarietà; ma è proprio questa che ci impedirà di raggiungere quell’assetto politico, per mancanza di consenso. La strada, in assenza di un partito del lavoro e con l’attuale riformismo esangue, sembra senza uscita. L’unico beneficio di un mercato precario, è che il ritardo tra occupazione e crescita si riduce, rispetto al passato, perché le imprese sanno di poter licenziare nel caso la ripresa non sia così promettente come anticipato. Meglio che niente? Non penso basti alla maggioranza degli italiani.
L’Unità 27.08.13