La crisi consuma fiducia, e persino speranza. Basta guardarsi attorno: si allarga la forbice tra ricchi e poveri, il lavoro che manca restringe pure i diritti, la società dei due terzi è capovolta dallo scivolamento del ceto medio e dalla precarietà dei giovani. La politica, per parte sua, appare impotente: le istituzioni democratiche continuano a perdere la partita con poteri esterni più forti e i canali della rappresentanza sono spesso ostruiti, benché la domanda di partecipazione si manifesti in forme inedite, e talvolta impetuose. Ma, oltre le evidenze, c’è un lato oscuro della crisi. Che tocca l’uomo, le sue relazioni, la capacità stessa di pro- durre cambiamenti. Viviamo in una sorta di dittatura del presente.
E non è chiaro se questa condizione prece- da le emergenze sociali, o ne sia un velenoso prodotto. Il tempo ci cambia. La nostra sfida, però, sta nel fatto che anche noi possiamo cambiare il tempo. Abbiamo la libertà di incidere nella storia. È questo il fondamento, il senso della libertà. Ma c’è ancora oggi la consapevolezza del cambiamento possibile? Oppure siamo stati derubati dell’idea di futuro?
La dittatura del presente, dicevamo. Il consumo di oggi a scapito di quello di domani. Il debito di oggi pagato con nuovo debito a breve. Il desiderio di oggi invece dell’investimento per il futuro. Il leader carismatico di oggi (magari dopo aver gettato nel fosso il pifferaio osannato fino a ieri) a cui affidare i tanti risentimenti accumulati invece del- la faticosa costruzione di una democrazia partecipata, di una competizione attenta anche al bene comune. Torna alla mente l’enciclica Lumen Fidei, dove Papa Francesco parla di idolatria. «L’uomo, perso l’orientamento fondamentale che dà unità alla sua esistenza, si disperde nella molteplicità dei suoi desideri: negandosi ad attendere il tempo della promessa, si disintegra nei mille istanti della sua storia». L’idolatria altro non è che un «movimento senza meta da un signore all’altro». L’idolatria non offre un cammino, «ma una molteplicità di sentieri che non conducono a una meta certa e configurano piuttosto un labirinto».
Se si leggono queste parole fuori dalla chiave teologica o pastorale, ne viene fuori una fotografia incredibilmente nitida della nostra afasia politica e della crisi democratica. La politica è in crisi perché slegata dalla promessa. Dall’idea di futuro. Dalla speranza che il cambiamento è possibile, che lo si può perseguire (soltanto) insieme, e che lo si può cominciare a costruire adesso. La politica è condannata al presente perché deve cercare consensi a breve. Perché è ridotta a mera governabilità. Anzi, per alcuni è solo la disciplinata applicazione di dottrine forni- te dalle tecnocrazie e/o dalle oligarchie. E già qualcuno dice che sono più competitivi i sistemi autoritari, perché più capaci di investimenti di medio o lungo termine, non subordinati al consenso elettorale.
L’eterno presente è una schiavitù. L’eterno presente ha il volto felice degli spot pub- blicitari. Dà un senso provvisorio di appaga- mento. Offre al supermarket della politica una batteria di salvatori della Patria, che vendono sogni ma non sanno promettere, cioè costruire comunità. Si dirada così il senso e il tessuto della solidarietà. L’idolatria del presente ci fa credere di stare in una piazza, e invece ci relega in un «labirinto». Il presente è l’altra faccia della solitudine. Dell’individualismo. «Non facciamoci rubare la speranza – è ancora un passo dell’ultima enciclica – non permettiamo che sia vanificata con soluzioni e proposte immediate che frammentano il tempo, trasformandolo in spazio. Il tempo è sempre superiore allo spazio. Lo spazio cristallizza i processi, il tempo invece proietta verso il futuro e spin- ge a camminare con speranza».
All’individuo fanno capo diritti fondamentali, conquiste di civiltà, risultati tra i migliori della storia dell’uomo. C’è dietro questa definizione la cultura greca, quella romana, quella cristiana, l’Illuminismo (e i loro conflitti, che hanno tuttavia prodotto pensiero, ordinamenti, civiltà). Ma il tema di oggi non è l’individuo in astratto: è l’individuo concreto, rimasto solo davanti allo Stato e al mercato. È l’individuo che perde la propria dimensione di persona, costruttore di comunità, legato ai propri mondi vitali come il tralcio alla vite. La persona capace di spendere la vita per i propri figli, per gli altri, per chi ha bisogno, per i compagni di lotta. Se non si è disposti a dare almeno un po’ della propria vita, il futuro resta fuori dall’orizzonte. E, se l’orizzonte si restringe, l’individuo resta solo anche quando si ribella insieme ad altri. Perché non è parte di un movimento, di una comunità, di un popolo, ma di una moltitudine. Ci vogliono invece i corpi intermedi, ci vuole fraternità, passioni comuni, per formulare una promessa e cambiare il futuro. Corpi intermedi: dal più piccolo, la famiglia, al più complesso perché proiettato fino dentro le istituzioni, il partito. Cosa resta della politica se tutto diventa competenza tecnica o governabilità, per di più costretta dentro binari strettissimi, disegnati da altri? La politica è rischio: il contrario della neutralità. Per questo può cambiare il corso degli eventi. Ma per farlo deve avere i suoi strumenti: le istituzioni e, prima ancora, la comunità organizzata. Il partito – come il sindacato, la cooperativa, il movimento, il comitato – non è un totem, ma è indispensabile per tentare di uscire dalla frantumazione, che è condizione di servitù.
Occorre lavorare con passione alle cose buone che si possono fare oggi, sapendo che non sono perfette e che il desiderio di una comunità è andare oltre, pensare ad un futuro migliore. Magari molto migliore. La profezia non è incompatibile con la politica. Purché non si crei una frattura tra il buon governo possibile e l’idea del cambiamento futuro. Una volta si chiamava «principio di non appagamento». Il governo non è il solo scopo della politica: quando lo diventa, allora comandano tecnocrazie e oligarchie. Il partito, i corpi intermedi sono i garanti del «non appagamento». Si misurano sempre con la promessa. Non ci sarà mai un leader carismatico capace da solo di ricomporre uno specchio finito in pezzi. La frattura di oggi, nel tempo della dittatura del presente, è causata da istanze di innovazione che si esprimono in modo radicale e del tutto contrapposto alla politica concreta, ai migliora- menti parziali e possibili nel governo dell’ esistente. Così, però, il conflitto non produce cambiamento e gli resta estraneo. Tocca ai partiti e all’autonomia dei corpi intermedi sanare la frattura.
L’Unità 26.08.13