attualità, politica italiana

“Silvio il rais che porta al disastro il Paese”, di Eugenio Scalfari

La riunione ad Arcore di tutto lo stato maggiore berlusconiano, ministri compresi, è stata lunga e contrastata. Erano in tanti, ministri e non ministri. Non risulta invece la presenza di Gianni Letta, ormai in palese disgrazia agli occhi del capo. Il giorno prima c’era stato un consiglio di famiglia, orientato alla moderazione per evitare contraccolpi sfavorevoli sulle aziende e sulle partecipazioni azionarie berlusconiane.
La conclusione è stata una fumata nera come il carbone, che avrà come risultato assai probabile la caduta del governo Letta.
Valuteremo tra poco le conseguenze di questo concertone dove tanti strumenti hanno suonato spartiti diversi tra loro e con diverse tonalità, unificati però dalla sudditanza al Capo- padrone al quale non esistono nel partito da lui fondato e da lui posseduto alternative praticabili.
A titolo di premessa facciamo intanto un’osservazione: nonostante i rischi concreti che il governo Letta non riesca a continuare il suo lavoro e crolli tutta l’architettura costruita da Napolitano per far uscire l’Italia dalla recessione, i mercati hanno tenuto, sia le Borse sia i rendimenti e gli “spread”; quando qualche seduta borsistica ha avuto esiti negativi le cause non sono state determinate da questioni italiane ma piuttosto da alcuni squilibri nelle economie dei paesi emergenti: Cina, India, Brasile, Indonesia. O con ulteriori difficoltà della Grecia.Si direbbe che la situazione italiana sia considerata irrilevante o addirittura solida e capace di superare senza danni per l’Europa una tempesta politica. È così?
No, non è così. La verità è che l’Europa non crede possibile che la classe dirigente italiana sia talmente fragile da cedere agli eventuali colpi di testa d’un personaggio da tempo evitato e dileggiato da tutte le cancellerie europee.
Insomma l’Europa si fida. Ma se quella fiducia si manifestasse infondata, le ripercussioni purtroppo sarebbero inevitabili e molto pesanti. Non scordiamoci che l’ammontare del nostro debito pubblico è uno dei più alti del mondo e che in nostri titoli e quelli delle nostre banche che in larga misura li hanno in portafoglio, sono largamente diffusi nei sistemi bancari e nei fondi di investimento internazionali. E non ci scordiamo che lo stesso Mario Draghi cambierebbe atteggiamento e politica rispetto ad un’Italia senza più timone né timoniere.
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Nel corso del vertice di villa San Martino i ministri hanno manifestato l’intenzione di non abbandonare il governo ponendo tuttavia due condizioni agli altri membri della maggioranza: l’abolizione totale e immediata dell’Imu e la permanenza di Berlusconi nel suo seggio di senatore. Soffermiamoci per ora su questa seconda condizione che coinvolge la legge Severino già da tempo oggetto di dibattito e di polemiche.
La tesi berlusconiana è l’inapplicabilità retroattiva della predetta legge, ma affinché questa tesi abbia successo occorre che nella Giunta per le elezioni ed eventualmente anche nell’Aula del Senato ci sia la maggioranza dei voti.
Il Pd, per bocca del suo segretario Guglielmo Epifani, ha già preventivamente rifiutato questa richiesta la quale comunque cozza contro la sua evidente irricevibilità. La Giunta e l’Aula non hanno alcun potere di ricorrere alla Consulta e stupisce che un presidente emerito come Capotosti attribuisca a questi organi parlamentari un potere “occasionalmente” giurisdizionale. Capotosti sa benissimo che il potere giurisdizionale ha come requisito fondamentale la terzietà che nel caso specifico mancherebbe del tutto se la maggioranza parlamentare avesse preventivamente concordato il suo voto favorevole. Il giudice “occasionale” avrebbe cioè manifestato il suo giudizio prima ancora di averlo espresso nella sede ufficiale. Capotosti può pensarla come crede ma non può commettere errori così marchiani. Senza dire che comunque è attesa nei prossimi giorni la delibera della Corte d’Appello di
Milano sulla durata della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici prevista dalla Cassazione e non coperta neppure dalla eventuale grazia del Capo dello Stato qualora quella grazia fosse concessa dopo esser stata chiesta nelle forme di legge.
La posizione dei ministri del Pdl è dunque priva dei fondamenti necessari. Se vogliono far vivere il governo ci restino, altrimenti si dimettano. Il resto sono chiacchiere inutili anzi inaccettabili.
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Un’ultima premessa prima di valutare l’esito del vertice di Arcore: l’atteggiamento della pubblica opinione e in particolare dei dieci milioni che nello scorso febbraio hanno votato ancora per Berlusconi (il cui partito ne ha persi comunque sei milioni che hanno preferito astenersi).
I sondaggi, per quel che valgono, sono controversi. Dopo la sentenza di condanna definitiva secondo alcuni il Pdl sarebbe in leggera ripresa e supererebbe il Pd; secondo altri sarebbe invece in ulteriore caduta. Comunque i messaggi di Berlusconi sono ancora ascoltati da un 15-18 per cento di elettori. Non è molto, ma neanche poco se si considera che dopo sei elezioni (questa sarebbe la settima) il bilancio consuntivo dei risultati promessi è zero.
Qui subentra la diagnosi storica di Giovanni Orsina, autore di un libro di grande interesse intitolato “Il berlusconismo nella storia d’Italia”. È una diagnosi spietata, che del resto abbiamo più volte anticipato su queste pagine: un populismo congenito ad una parte rilevante di cittadini italiani, che per alcuni si tinge di moderatismo conservatore, per altri di “peronismo”, per tutti di disprezzo e indifferenza nei confronti della politica, delle istituzioni, dello Stato. L’uomo della Provvidenza rappresenta una sorta di ciambella di salvataggio. «Ci pensi lui, purché lasci a noi la libertà di arrangiarci come meglio ci pare, salvo darci una mano nei momenti di bisogno». Ma se la mano non gliela dà, allora la colpa non è sua ma di chi glielo ha impedito: le istituzioni, lo Stato, la politica, le toghe rosse, i comunisti.
La diagnosi di Orsina è impietosa. Gli esempi punteggiano la storia di questo Paese e ne spiegano la fragilità democratica. L’opposizione purtroppo ci ha messo del suo. Si spera che, almeno in questo passaggio così difficile, ritrovi compattezza e quel senso di servizio che dovrebbe essere l’essenza d’una forza politica consapevole della sua funzione.
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Abbiamo già visto che l’inapplicabilità della legge Severino voluta dai sudditi di Berlusconi non ha i presupposti giuridici prima ancora che politici. La richiesta tassativa di Alfano delto
l’abolizione dell’Imu manca dei presupposti economici.
Il progetto Letta-Saccomanni era un rinvio, già abbastanza oneroso, di quell’imposta ed una sua “rimodulazione” che favorisse i ceti più deboli dei proprietari di prima casa. Questo fu l’impegno assunto con queste precise parole dal presidente del Consiglio nel discorso sulla fiducia accordatagli dal Parlamento.
La richiesta di Alfano sovrappone all’impegno del governo un impegno preso dal Pdl con i suoi elettori lo scorso febbraio. Qual è l’ostacolo? La totale mancanza di copertura. Il rinvio e la rimodulazione costerebbero 4 miliardi e già trovarli sarebbe stato un problema, ma l’abolizione totale ne costerebbe più del doppio con effetti proiettati negli anni successivi, rendendo pertanto impossibile mantenere il deficit entro il 3 per cento e il pareggio del bilancio entro l’esercizio in corso.
Aggiungiamo che i veri beneficiari dell’abolizione dell’Imu sono i possessori di case di elevata consistenza patrimoniale. Se l’Imu fosse interamente abolita bisognerebbe infatti lasciare a terra tutti gli impegni per rilanciare l’occupazione, finanziare la Cassa integrazione in deroga, sostenere il precariato, la cultura, la scuola, i Comuni.
L’abolizione dell’Imu non mette cioè in pericolo soltanto gli impegni assunti con l’Europa, ma ha un contenuto socialmente regressivo che va respintale con assoluta decisione.
In queste condizioni il governo Letta è praticamente in crisi. Ma Letta non deve esser lui a dimettersi, debbono essere i ministri del Pdl ad andarsene. È facile prevedere che il Presidente della Repubblica rinvii Letta in Parlamento e, se sarà sfiduciato, ci sarà probabilmente un Letta-bis con un obiettivo teorico ed un altro politico; quello teorico è che si apra una “faglia” all’interno del Pdl e arrivino di lì i voti necessari ad avere in Senato una nuova anche se esile maggioranza.
L’obiettivo pratico è quello di un governo che riformi la legge elettorale sulla base dei rilievi già enunciati dalla Consulta: premio al 40 per cento e libertà di preferenza agli elettori.
A questo punto nasce il problema Grillo. Lui vuole andare al voto con la legge esistente sperando di vincere per poi rifare lui il Porcellum abolendo la libertà di mandato in modo da continuare a tener per la briglia i suoi parlamentari. Ma questa volta, se il Pd sarà compatto nella difesa dell’interesse generale e dello stato di diritto, è non solo auspicabile ma probabile che molti degli astenuti e degli elettori di sinistra emigrati nel febbraio scorso verso Grillo rientrino in linea nel Pd.
Questa è la posta in gioco. Il Paese è in gioco e la destra populista al comando del sire di Arcore se ne sta assumendo per la settima volta la responsabilità.

La Repubblica 25.08.13