Il vertice di Arcore ha confermato il ricatto, rafforzandolo. Non solo ci si aspetta dal Pd che trovi una soluzione alla decadenza di Berlusconi, ma si rilancia il contenzioso su tutto il resto. Con questo vertice, e le attese che ha suscitato, il Pdl ribadisce che le sorti del governo dipendono da ciò che Berlusconi ritiene più conveniente per sé. Ciò che conviene al paese è solo strumento di ricatto. Se il Pd non esce da questa strettoia il marasma politico che da mesi ormai attanaglia l’Italia peggiorerà ulteriormente. La pezza messa da Napolitano (accettazione di una rielezione a patto di formare un governo di “larghe intese”) ha certamente avuto buone ragioni e motivazioni generose; ma sta rivelando tutta la sua fragilità. Non solo, fin dall’inizio, il Pdl si è comportato da partito insieme di governo e di opposizione, costringendo il Pd in un ruolo di sempre più acritico difensore della “stabilità a tutti i costi”, costretto a rimangiarsi ogni, per altro timidissima, resistenza (si veda la vicenda dell’Imu e le altalenanti dichiarazioni dei ministri Pd). Dopo la condanna definitiva di Berlusconi, lui stesso e il suo partito hanno messo in chiaro, per chi non lo avesse capito, quale era per loro la vera posta in gioco nel partecipare al “governo delle larghe intese”: il salvataggio di Berlusconi, nel processo o fuori dal processo (e dalla legge). In nessun altro paese democratico sarebbe possibile che un governo fosse tenuto sotto ricatto da un leader politico (e dal suo partito) condannato in via definitiva. In Germania un ministro degli esteri molto popolare e amatissimo dovette dimettersi, perché si era scoperto che aveva copiato gran parte della tesi di dottorato. E un presidente della Repubblica si dimise perché accusato (non ancora messo sotto processo) di aver ricevuto favori da un industriale quando era governatore di una regione. Entrambi facevano parte del partito di maggioranza. Ma né il loro partito, né la stampa “amica” fecero nulla per difenderli, al contrario. Ed anche Merkel, di cui entrambi erano “pupilli”, dopo un debole tentativo di difesa, li lasciò al loro destino, anche a motivo della pressione dell’opinione pubblica. Perché in Italia, al contrario, è possibile che il Paese rimanga appeso ad un ricatto chiaramente irricevibile? Al di là delle questioni giuridiche ampiamente di-
scusse su questo giornale, proprio le ragioni avanzate da Berlusconi e i suoi per chiedere, di fatto, l’impunità – l’importanza della sua figura politica – rendono se possibile più odioso e insopportabile il reato di frode fiscale, più inaccettabile che possa sedere in Parlamento chi se ne è macchiato, ed è stato per questo condannato in via definitiva.
Berlusconi ha, certo, enormi responsabilità in questa situazione. Ma non è da solo. Il suo
partito e i suoi mezzi di comunicazione gli danno manforte – che si tratti di falchi o di colombe non importa. Sarebbe facile sostenere che sono tutti al soldo di Berlusconi e senza di lui non esisterebbero. In parte, per molti o pochi, è probabilmente vero. È disarmante vedere una intera classe politica e giornalistica occupata a costruire una narrativa pubblica in cui Berlusconi, nonostante il suo denaro, i suoi avvocati/parlamentari, le innumerevoli leggi
ad personam, è una vittima della giustizia ed un eroe della libertà, senza la cui presenza in Parlamento il partito non avrebbe futuro. Non sembrano accorgersi che in questa narrativa emerge un partito inesistente, una classe politica che in più di un ventennio non è riuscita davvero ad autonomizzarsi dal proprio leader. Al punto che, alle brutte, non disdegnerebbe una successione dinastica. Eppure, faccio fatica a pensare che siano tutti semplicemente dei servitori imbelli e impauriti. C’è un irridente cinismo, un’operazione sistematica di delegittimazione dei capisaldi della democrazia – a partire dalla divisione dei poteri – in direzione di qualche cosa che assomigli ad un populismo plebiscitario. Anche se fa un po’ specie sentire manipoli di nominati evocare la legittimità derivante dalle elezioni come l’unica forma di legittimità riconosciuta.
Il ricatto, tuttavia, ha trovato sponda anche nel timore del Pd di andare alle elezioni e nella tenace difesa della stabilità a tutti i costi. Incapace (o forse neppure tanto voglioso) di modificare il Porcellum, timoroso di un nuovo tsunami elettorale dopo le prove di questi mesi, bloccato su un esasperante dibattito interno, indebolito da comportamenti non sempre lineari nei confronti di propri rappresentanti sotto processo, il Pd è direttamente responsabile della propria ricattabilità – da parte del Pdl, ma anche rispetto alla ferma ed esplicita
moral suasion
di Napoletano in nome della stabilità.
Oggi vediamo che il governo delle larghe intese, come era logico aspettarsi, più che su un compromesso era fondato su una buona dose di ambiguità e su aspettative politicamente e civilmente inaccettabili. Possibile che il Pd, Letta, Napolitano non le abbiano messe in conto e non abbiano chiarito subito la posizione che avrebbero assunto nel caso le cose fossero andate come poi sono andate? Se non lo hanno fatto, forse perché ritenevano di poter gestire la rabbia di Berlusconi e dei suoi, sono stati per lo meno ingenui. Comunque vada a finire, questa vicenda ha consegnato ai cittadini l’immagine non solo di un governo debolissimo, ma di una classe politica disponibile ad ogni compromesso per salvare se stessa. Dove i potenti sono più uguali degli altri.
La Repubblica 25.08.13