Cinquant’anni fa, 250mila persone si raccolsero a Washington nella grande manifestazione “For Jobs and Freedom” – per il lavoro e la libertà – organizzata da Philip A. Randolph, storico sindacalista militante nero e da Bayard Rusting, pacifista nero, gay, in odore di comunismo. Intervennero sindacalisti, leader religiosi, protagonisti dei movimenti, artisti. Il tutto culminò con lo storico discorso di Martin Luther King, e la sua celebre perorazione: «Ho un sogno…».
Sono parole memorabili e in un certo senso sfortunate perché la loro eloquenza ha finito quasi per farci dimenticare le centinaia di migliaia di persone senza le quali quel discorso sarebbe rimasto solo un grande esercizio di retorica, e ridurre questa realtà di massa all’icona di una persona sola. E, riciclata e avvilita in tanti modi (dal caffè Kimbo ad Anna Oxa, da Silvio Berlusconi a Quagliarella) la frase del sogno ha finito per cancellare dalla memoria tutto il resto del discorso e la sua radicale politicità.
«Ho un sogno, un sogno profondamente radicato nel sogno americano. Ho un sogno, che questa nazione un giorno sorgerà e vivrà il vero significato del suo credo: Riteniamo che certe verità non abbiano bisogno di dimostrazioni: che tutti gli uomini sono creati uguali… Ho un sogno, che le mie quattro bambine un giorno vivranno in una nazione dove saranno giudicate non dal colore della pelle ma dal contenuto del carattere. Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà elevata, ogni colle e ogni monte sarà abbassato, gli spazi ruvidi saranno levigati e i luoghi distorti saranno raddrizzati, e la gloria del Signore sarà rivelata e tutti i mortali la vedranno insieme».
Il sogno dunque riveste di familiari metafore bibliche (il faro della speranza, le fiamme dell’ingiustizia, l’alba della liberazione, le catene della segregazione…) Una rivendicazione morale ma soprattutto politica: l’uguaglianza come significato originario della democrazia americana. King si colloca nella tradizione americana che fonda la denuncia degli errori e le ingiustizie del presente sul recupero dei valori fondanti del paese, evocando esplicitamente i padri fondatori e Lincoln. L’impalcatura del suo discorso sta dunque nella relazione fra il passato concreto della storia, il futuro immaginifico del sogno, e la domanda inevasa: come si fa a far entrare il sogno nella storia?
Ma poi scatta un cambio di registro: «Siamo venuti qui», dice, «per riscuotere un assegno». E si apre una insistita sequenza di termini bancari: la Dichiarazione d’indipendenza e la Costituzione sono «una tratta, un pagherò», che estende a tutti, bianchi e neri, l’«eredità» dei diritti inalienabili di vita, libertà e ricerca della felicità. «Invece di onorare questa sacra obbligazione», continua, «l’America ha dato ai suoi cittadini di colore un assegno a vuoto, che è tornato indietro con il timbro “scoperto”. Noi rifiutiamo di credere che la banca della giustizia abbia fatto fallimento, di credere che non ci siano fondi sufficienti nei grandi forzieri di opportunità di questa nazione. Così siamo venuti a incassare quell’assegno – un assegno pagabile a vista che ci darà le
ricchezze della libertà e la sicurezza della giustizia».
Apparentemente, in questa prosaica allegoria bancaria, siamo molto lontani dalla poetica del sogno. Ma c’è nulla di volgare o irriverente: le figure economiche non mancano nella Bibbia e nel Vangelo; e la poetica del protestantesimo americano sa attribuire significati spirituali ai più ordinari oggetti quotidiani; soprattutto, l’America, fondata da illuministi consapevoli della natura contrattuale del patto sociale, non si vergogna di parlare di denaro. Così, King ancora la rivendicazione morale dell’uguaglianza alla nascita stessa del suo paese: se di diritti civili parliamo, è nella sua storia civile che dobbiamo cercarne le basi.
Anche per questo King insiste che queste promesse sono state fatte ai cittadini americani, che gli americani ne sono gli eredi, che quelli che rivendicano sono diritti americani: «Non ci sarà tranquillità in America finché ai Negri non saranno riconosciuti i loro diritti di cittadinanza». Così, sposa la radicalità dell’ammonimento all’America («i turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondazioni della nostra nazione») con l’ammonimento alla moderazione rivolto ai suoi («Dobbiamo condurre sempre la nostra lotta sull’elevato piano della dignità, della disciplina e del sacrificio. Non dobbiamo permettere che la nostra creative protesta degeneri in violenza fisica. Sempre più dobbiamo elevarci alle maestose altezze di chi affronta la forza fisica con la forza dell’anima» perché «la sofferenza immeritata è redenzione»). È dopo queste concrete argomentazioni politiche che il discorso prende il volo. Ce ne accorgiamo dall’irruzione di un altro procedimento poetico: la ripetizione cumulativa, accompagnata dal crescere ispirato della voce e dal ritorno alle grandi metafore bibliche. «Ci chiedono: quando sarete soddisfatti? Non saremo mai soddisfatti», risponde; e ripete: non saremo mai soddisfatti, finché saremo soggetti agli orrori della brutalità poliziesca; non saremo mai soddisfatti finché non potremo riposare negli alberghi e nei motel, non saremo mai soddisfatti finché la nostra mobilità sociale sarà solo da un ghetto a un ghetto più grande, finché i nostri figli saranno umiliati dalle scritte «solo per bianchi», finché i neri in Mississippi non potranno votare e a New York penseranno di non avere nulla per cui votare. «No, no, non siamo soddisfatti, e non saremo soddisfatti finché la giustizia scorrerà a valle come le acque e il diritto come un fiume possente».
In queste parole c’è anche qualcosa del Martin Luther King futuro, capace di estendere la lotta dalle ingiustizie di diritto al Sud alle ingiustizie economiche di fatto al Nord. Troppo spesso dimentichiamo che la manifestazione del 28 agosto era convocata «per il lavoro e per la libertà», che i suoi promotori sono innanzitutto sindacalisti, che tra le sue rivendicazioni dichiarate erano la parità universale nella formazione e dignità del lavoro e l’aumento dei minimi salariali. E che nel suo discorso John Lewis, dello Student Non Violent Coordinating Committee (l’organizzazione da cui poto tempo dopo scaturirà il grido «Black power») aveva gridato: «Oggi manifestiamo per il lavoro e la libertà, ma non abbiamo niente di cui essere orgogliosi. Centinaia e migliaia di nostri fratelli non sono qui perché sono pagati con paghe di fame o non sono pagati affatto, mezzadri nel Mississippi che lavorano per meno di tre dollari al giorno, 12 ore al giorno… Ci dicono di essere pazienti e aspettare, ma non possiamo essere pazienti…. Fino a quando possiamo essere pazienti? Vogliamo la libertà e la vogliamo adesso» (e bisogna ascoltare le registrazioni per rendersi conto dell’ovazione possente che accoglie quel «now!»).
Qui sta il passaggio più fragile e più potente del discorso. Da un lato, a chi grida freedom now!, King offre un generico ottimismo: «Tornate al Mississippi, tornate all’Alabama, tornare alla Sud Carolina, tornate alla Georgia. Tornate alla Louisiana, tornate allo squallore e ai ghetti delle città del nord, sapendo che in qualche modo (somehow) questa situazione può essere cambiata e lo sarà». In quale modo? Con che strumenti, con che potere? Ma intrecciando la retorica delle origini democratiche con la Bibbia e gli spiritual, King fonda questa vaga speranza sul potere immateriale ma irresistibile della visione: è il momento indimenticabile del suo ribadito «I have a dream». Per cambiare la situazione è decisiva la forza morale, la indomata soggettività e la ritrovata dignità di un movimento che si è dato una visione. Senza il sogno la realtà non cambierà mai. TUtto il resto, le politiche e le strategie, viene dopo.
Di qui la potenza e l’ambiguità di questa figura. Certo, il sogno rinvia a un futuro senza data – «One day», un giorno («che succede a un sogno differito?» aveva scritto Langston Hughes: «avvizzisce con un grappolo al sole, imputridisce come una piaga? Marcisce, si affloscia come un carico pesante? O invece esplode?»). Eppure, il sogno è la più alta delle possibilità umane, la capacità di vedere l’invisibile, dargli forma, cominciare a cercarlo.
Il «sogno americano» è infine questo: non che gli americani sognino di più o sognino tutti lo stesso sogno o abbiano dei sogni tanto diversi dai normali sogni del genere umano. È che, nel momento in cui parole come «ricerca della felicità» o come «sogno» entrano nel lessico politico, il futuro è affidato all’umanità profonda di ciascun cittadino. Nel suo sogno, King intreccia l’ideologia liberale della rivoluzione americana, che attribuisce i diritti alla sfera individuale, con l’etica della controcultura, che fa nascere la rivoluzione dall’interno di ciascuno di noi.
Anche noi abbiamo un nostro sogno differito, un contratto non soddisfatto: quell’articolo 3 della Costituzione che va anche oltre il «sogno americano», perché proclama che realizzare la ricerca dell’uguaglianza è soprattutto «compito della Repubblica». La cattiva politica di oggi non si limita a differire il sogno: lo azzera, lo annulla, lo nega. Perciò il sogno americano di Martin Luther King ricorda anche a noi che la possibilità di un futuro comincia nell’immaginare un altro mondo, cercare di dargli forma, e provare a realizzarlo.
L’Unità 25.08.13