Dopo venti mesi di lavori, con l’esame di 184.920 contributi scientifici e l’impiego di circa 15.000 esperti, l’Anvur ha recentemente pubblicato il suo Rapporto sulla «valutazione della qualità della ricerca 2004-2010», relativa alle università italiane e altri enti di ricerca. Lavoro poderoso di oltre tremila pagine, irte di complessi algoritmi (sui quali attendiamo il giudizio degli esperti) presentato ora nelle sue tabelle essenziali e con brevi saggi introduttivi di autorevoli studiosi in un più agile volumetto del Corriere della sera.
Il rapporto, pur presentato con molta apparente sicurezza («valutazione imparziale e oggettiva della ricerca») si viene arricchendo cautamente di osservazioni critiche sui limiti di una valutazione che applica parametri identici a realtà spesso assai diverse, non «infallibile», con notevole «incertezza statistica» come si legge nella presentazione del Rapporto finale che conferma la serietà dell’impegno dell’Anvur.
Il quadro della ricerca che ne esce è assai variegato, con ovvie conferme di alcuni poli di eccellenza e di alcune note situazioni fortemente critiche, con una notevole divaricazione fra Nord e Sud; anche con sorprendenti scoperte di aree, università, dipartimenti classificati molto positivamente, eppure noti nel mondo scientifico per la loro scarsa affi- dabilità.
Tutto questo ha già sollevato polemiche, richieste di approfondimenti e revisioni di cui certo l’Anvur dovrà tenere conto.
Forse più che discutere sui risultati finali dei complessi algoritmi valutativi, varrà la pena riaprire una discussione sui parametri — o indicatori di qualità — sui quali si è fondata la valutazione. È noto che i criteri bibliometrici — applicati a tutte le scienze dure — sono stati oggetto di forti riserve da parte di istituzioni scientifiche internazionali di notevole rilievo (come l’Accademia nazionale dei Lincei, l’Académie des sciences, la European Sciences Foundation) perché fondati soprattutto sull’importanza determinante del numero delle citazioni ricevute in un determinato arco di anni (anche se stroncature non importa, vale il loro numero), citazioni attinte a banche dati costituite non da società scientifiche ma da imprese commerciali (Thompson e Elsevier) che vivono degli utili realizzati con i contatti ricevuti.
Lo stesso calcolo del numero dei lavori scientifici è criterio assai discutibile e porta a quella che è stata detta «politica del salame», cioè allo smembramento in più parti di un medesimo lavoro. Così, se uno studioso pubblicasse un’edizione della Divina commedia in un solo volume, presenterebbe un solo «prodotto»; se presentasse l’opera in tre volumi, uno per cantica, tre «prodotti»; se pubblicasse separatamente ogni canto (come per le Lecturae Dantis) presenterebbe cento «prodotti».
Altro criterio che deve essere discusso e approfondito è la cosiddetta «attrattività di risorse»: non solo si chiede che il ricercatore si faccia piazzista commerciale dei risultati delle proprie ricerche (non a caso detti sempre «prodotti» con un linguaggio di marketing aziendale) ma si dimentica che la ricerca fondamentale, di base, è difficilmente attrattiva di mezzi che invece possono affluire alla ricerca applicata, quasi sempre eterodiretta. Così come eterodiretta è spesso la ricerca che si inserisce in progetti nazionali o internazionali per trovare dei fondi, allontanando il ricercatore dal proprio programma. Rimane invece del tutto marginale nella valutazione il trasferimento tecnologico che è una missione propria del Cnr, non a caso per più aspetti penalizzato nel Rapporto Anvur.
Manca poi — e lo sottolinea anche il presidente dell’Anvur, Stefano Fantoni — una qualsiasi analisi della didattica che per le università (ma anche in molti enti di ricerca) è essenziale complemento della ricerca. Come manca una valutazione del contesto di lavoro dei ricercatori: consistenza di laboratori e biblioteche, alloggi per gli studiosi, ambienti di lavoro; è anche questo uno dei motivi per i quali i ricercatori italiani preferiscono in grande maggioranza usufruire di borse internazionali all’estero, come ha sottolineato Gian Antonio Stella sul Corriere del 23 luglio scorso. In tutto il Rapporto la ricerca sembra vivere in un rarefatto mondo delle idee, senza mai incarnarsi in ambienti e strumentazioni.
Infine, perché la valutazione della ricerca in Italia non si riduca a una «valutazione fra poveri», ricorda Giuseppe Remuzzi, andrebbe meglio analizzata la difficile situazione dei ricercatori (cui più volte si fa cenno) mettendo in rapporto investimenti pubblici e ricerca: la modestia dei primi (male cronico in Italia) è evidente premessa della debolezza della seconda.
Il Corriere della Sera 20.08.13