Gli ultimi dati di Eurostat sull’andamento dell’economia sono incoraggianti per l’Europa. Nel secondo trimestre 2013 il continente esce dalla recessione e ricomincia a crescere: + 0,3% del Pil. Purtroppo quegli stessi dati sono molto meno incoraggianti per l’Italia. Il nostro Paese è ancora in recessione: – 0,2%. Peggio di noi ha fatto solo Cipro.
La Germania (+ 0,7%) è, ancora una volta, la locomotiva dell’Unione. Seguita a stretto giro da Gran Bretagna (+ 0,6%) e Francia (+ 0,5%). Noi siamo, ancora una volta, il vagone piombato che frena il convoglio. Poiché questo differenziale di circa un punto tra noi e il resto d’Europa nella crescita del Pil dura, con sconcertante costanza, da quasi trent’anni: poiché negli ultimi decenni siamo il Paese al mondo cresciuto di meno dopo Haiti; e poiché la decrescita (la recessione) degli ultimi 5 anni non è stata e non è tuttora affatto felice, ma, ahimè crea disoccupazione e povertà dovremmo chiederci: perché? E tenere la domanda costantemente sulla prime pagine dei giornali e in cima all’agenda politica. Purtroppo da vent’anni ci facciamo distrarre dai problemi personali di Berlusconi e ci dimentichiamo del Paese.
La crisi italiana non è solo economica. E la domanda non ammette una risposta semplice. Tuttavia un co-fattore determinante va cercato nell’industria manifatturiera, che pure è la seconda in Europa. Il problema è la sua specializzazione produttiva. Il nostro sistema industriale produce beni a basso e medio tasso di conoscenza aggiunto. Dove maggiore è la concorrenza dei Paesi a economia emergente. Non ci siamo accorti che, negli ultimi trent’anni, che il mondo è entrato nell’economia fondata sulla cultura.
E così, invece di cercare di cambiare specializzazione produttiva e puntare sulla qualificazione del lavoro, reagiamo tentando di competere sul versante del costo del lavoro, puntando sulla compressione dei salari e dei diritti sul posto di lavoro. Anzi, su una vera e propria dequalificazione del lavoro. Nei giorni scorsi è stato reso noto il dato che il numero di laureati assunto dalle industrie tende a diminuire e ha raggiunto un minimo.
Tutto questo non solo crea ingiustizia (siamo uno dei Paesi al mondo in cui negli ultimi due decenni la disuguaglianza sociale è cresciuta di più) ma deprime l’economia. Salari più bassi e maggiore disoccupazione determinano una contrazione strutturale della domanda interna. Dovremmo invece cambiare la specializzazione produttiva del sistema Paese seguendo l’esempio di altre economie di Paesi con una forte industria manifatturiera – dalla Germania alla Corea del Sud o anche alla stessa Cina – e puntare sulla cultura.
Ma quante divisioni ha la cultura, ci chiedono gli scettici? Beh, molte più di quanto si creda e si voglia far credere. Per contare le divisioni occorre definire cosa intendiamo per cultura.
Per fortuna ci viene in aiuto, autorevolmente, Umberto Eco, il quale sostiene che per cultura che ha un forte impatto socioeconomico dobbiamo intendere tre cose: la formazione, la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico, l’industria creativa. Per industria creativa dobbiamo intendere, spiega ancora Eco, una serie di attività che vanno dall’industria editoriale (informazione e comunicazione) al design, dal cinema al teatro, dalla musica all’infinita, (ma ben definita) serie di attività che hanno la creatività per ingrediente di base.
Ebbene, queste sono le tre divisioni che la cultura mette in campo è che hanno già conquistato la parte maggioritaria dell’economia mondiale. I beni e i servizi del sistema produttivo che si fonda sulla ricerca scientifica (beni e servizi hi-tech) rappresentano il 30% del Prodotto interno loro mondiale. L’industria creativa rappresenta il 15% del Pil mondiale. E, infine, la formazione (dalla scuola materna all’università) rappresenta almeno il 6 o 7% del Pil mondiale. Il che significa che almeno il 52% dell’economia del pianeta, ormai, si fonda sul «triangolo di Eco». A questo bisognerebbe aggiungere, a onor del vero, un altro 8-10% rappresentato dalla sanità, che è ormai quasi per intero fondata sulla medicina scientifica e l’alta qualificazione.
La cultura cui facciamo riferimento, dunque, rappresenta circa il 60% dell’economia del mondo. Ebbene in questo grande flusso sono totalmente immersi i Paesi economicamente più dinamici del pianeta (dalla Germania alla Corea del Sud alla Cina, per non parlare degli Usa). Mentre l’Italia ne è sostanzialmente fuori. Gli investimenti in formazione dell’Italia sono tra i più bassi dei Paesi Opec e il numero di laureati tra i giovani è addirittura un terzo di quello della Corea, del Canada, del Giappone, della Russia. Idem per gli investimenti in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico. Ma, quel che è persino più grave, abbiamo una delle bilance tecnologiche dei pagamenti più in passivo d’Europa. Acquistiamo all’estero la gran parte della tecnologia che consumiamo.
Persino nell’industria creativa segniamo il passo. Quanto alla sanità, continuiamo a considerarla un settore dove tagliare, ben sapendo che è una delle meno care e più efficienti tra i paesi Ocse. Vogliamo parlare di questo? Vogliamo scordarci per un attimo Berlusconi e verificare come cambiare il Paese partendo da questi quattro divisioni?
L’Unità 19.08.13