C’è uno scarto enorme tra le necessità di un paese ferito dalla crisi e dalla disoccupazione e questo dibattito pubblico, legato ai dilemmi di Berlusconi che tenta di sottrarsi a una sentenza definitiva, dalla quale sottrarsi è impossibile. C’è uno scarto enorme tra le responsabilità che gravano sulle spalle del Pd (nonostante l’insuccesso elettorale) e questa parodia di confronto precongressuale su date e regole. C’è uno scarto enorme anche tra le domande di rinnovamento, affidate da milioni di cittadini al Movimento 5 Stelle, e il cinismo di Grillo che lavora per lo sfascio di questa e della prossima legislatura.
Eppure l’Italia non ha tempo. Né la politica ha tempo. La sua impotenza è la causa prima di tutte queste fratture: e ora siamo davanti a una vera e propria crisi di sistema. Non è un caso se nell’ultimo decennio l’Italia sia cresciuta meno degli altri Paesi occidentali, se abbia perso più lavoro, più risorse, più produttività. Per questo la flebile ripresa dell’Eurozona, pur con tutte le sue contraddizioni, è adesso per noi una prova decisiva. Ancora più importante che per gli altri. Perché in gioco c’è la fiducia nel futuro, c’è il legame tra interessi reali e democrazia, c’è lo stesso patto di cittadinanza.
Non è soltanto una questione di Pil. Se la politica dovesse arrendersi ancora, se non riuscissimo ad agganciare la ripresa europea, se fallissimo le politiche del lavoro e le riforme necessarie per riattivare il tessuto economico e sociale, se rinunciassimo ancora a reagire al collasso istituzionale della seconda Repubblica, allora metteremmo a rischio la democrazia. Chi vuole rinviare sempre a dopo, chi lancia anatemi di illegittimità a tutti gli attori di oggi, indistintamente, chi promette catarsi future, in realtà, scommette sul disastro. Sulla rottura del Paese, e anche dell’Europa. Ma quale ricostruzione ci sarebbe dopo tante macerie? Quale tessuto civile può resistere, quale solidarietà sociale? La stessa Costituzione va difesa oggi, preservandola dagli sconclusionati assalti presidenzialisti, ma ponendola al servizio del cambiamento. La Costituzione ci può aiutare ad uscire dalla seconda Repubblica, approdando ad un sistema parlamentare razionalizzato e ad una competizione politica efficace, che riduca le probabilità di larghe intese.
Intanto si lavori per l’Italia reale. Per colmare queste diseguaglianze sempre più insopportabili. Non si riscatteranno né la democrazia, né i partiti rifiutando le responsabilità sulla nuova fase. Noi non volevamo questo governo: ci siamo battuti per averne un altro, anche dopo l’esito controverso delle elezioni. Ora però il governo deve diventare uno strumento di cambiamento, al servizio di un Paese che intende tornare a dire la sua in Europa. Anzi, che vuole rilanciare la battaglia per gli Stati uniti d’Europa, a partire da una forte politicizzazione delle prossime elezioni europee. I progressisti in competizione con i conservatori, due candidati a confronto per la guida della Commissione: così si contrastano i populismi, gli anti-europei, le destre estreme, i Grillo.
Berlusconi può far cadere il governo. È vero. La destra italiana è in preda a convulsioni, e il decorso è incerto. Lancia parole d’ordine non plausibili come l’«agibilità politica» del suo capo dopo la condanna definitiva, e di fronte al muro dell’impraticabilità minaccia ritorsioni istituzionali ed elezioni anticipate. Berlusconi non ha altra strada che le dimissioni da senatore e l’avvio di un percorso democratico del suo partito da cui presto dovrà scaturire un successore. La legge è uguale per tutti. E le sentenze si rispettano, come l’autonomia della magistratura. Fuori da questo non c’è lo Stato. Berlusconi resterà il fondatore di Forza Italia. Ma ormai è già un leader extra-parlamentare, come Grillo.
Il governo Letta ha fatto alcune cose, molte altre deve ancora fare. Non può vivere a tutti i costi. Lo Stato di diritto, tanto per cominciare, è un limite invalicabile. Così come l’equità distributiva: non esiste (vedi l’ipotesi Pdl sull’Imu) che i più poveri paghino l’esenzione fiscale dei più ricchi. Tuttavia, mentre il governo proseguirà la sua missione, mentre la battaglia politica tra destra e sinistra si svilupperà anche sulle scelte operative dell’esecutivo, mentre le riforme elettorali e istituzionali passeranno al vaglio del Parlamento, i partiti non possono restare negli spogliatoi.
Non può farlo soprattutto il Pd, il solo a presidiare la definizione «costituzionale» di partito. Il partito deve sfidare, spingere il governo ad agire. Ma soprattutto deve tenere insieme la responsabilità dell’oggi con la speranza del futuro. Governare i cambiamenti possibili e costruire quelli più grandi. Stare nel presente e comporre, insieme ad altri, una promessa. Le tante fratture, che la crisi della politica ha prodotto, stanno proprio nell’eclisse dei partiti, nel soffocamento dei corpi intermedi, nella sfiducia nei soggetti collettivi. Una politica ridotta solo al presente è destinata a morire. Così come una politica che rinuncia alla responsabilità di governo, puntando tutto sul crollo del sistema, sui carismi individuali, sulle catarsi populiste. Berlusconi è stato l’avanguardia dell’antipolitica: attorno a noi, ci sono i risultati. Che ora paga anche la destra. Senza partiti democratici non ci sarà una rinascita. Non ci sarà se la politica verrà schiacciata tra mero governo dell’esistente e illusioni plebiscitarie.
L’Unità 18.08.13