Nè Cristo né Maometto si sono fermati al Cairo nel sanguinoso venerdì 16 agosto. Lo spettro della guerra civile si stende sull’Egitto. Torna alla mente l’Algeria del 1991, quando l’esercito mise fine al processo elettorale perché le urne avevano assegnato la vittoria al Fronte islamico di salvezza. Quella sospensione della democrazia fu seguita da una guerra senza quartiere fra gruppi islamisti armati e il governo.
Il terrorismo prese il Paese in ostaggio, massacri orrendi furono commessi da una parte e dall’altra. Più di centomila civili algerini perirono nel corso di una guerra che andò avanti per una quindicina d’anni. Un simile scenario di orrore quotidiano, come quello a cui assistiamo da più di due anni in Siria, sembra poco probabile.
L’Egitto non precipiterà in una guerra civile, anche se le premesse di un simile disastro sono ben visibili oggi al Cairo, ad Alessandria o a Ismailia. La polizia ha aperto il fuoco sui manifestanti che si rifiutavano di lasciare la piazza Rabi‘a al-Adawiyya, che occupavano da un mese e mezzo. Ma la violenza è da entrambe le parti: dimostranti islamisti hanno dato alle fiamme alcune chiese copte; il ministro dell’Interno riconosce che ci sono stati centinaia di morti tra i manifestanti e molte vittime tra le forze dell’ordine.
I Fratelli musulmani egiziani non hanno niente a che vedere con il Fronte islamico di salvezza algerino. Esistono da quasi un secolo, sono ben strutturati, ben organizzati e formano uno Stato nello Stato. Pensano che l’Islam sia l’unica soluzione a tutti i problemi. Sull’altro versante, una parte del popolo egiziano (tra cui una decina di milioni di copti) pensa che la soluzione verrà dalla separazione tra religione e politica, ossia dalla laicità. Non è ateismo, ma un rispetto reciproco tra chi ha la fede e chi considera che credere o non credere sia una faccenda che deve riguardare la sfera privata. Ma la propaganda islamista si è affrettata a dipingere la laicità come il male assoluto, confondendola con la negazione della religione. Nella stampa islamica, la parola “laico” rappresenta un insulto e un’autorizzazione a cacciare l’ateo.
Ritroviamo lo stesso discorso in Tunisia, dove si affrontano due visioni del mondo, una abbarbicata alla religione e l’altra laica, libera e moderna. Più l’islamismo arretra (i vari governi di matrice islamica hanno dimostrato la loro incompetenza e la loro incapacità di rispondere ai problemi del popolo), più i suoi rappresentanti si innervosiscono e giocano il tutto per tutto. In che modo le aggressioni contro i cristiani copti potevano risolvere i problemi dell’Egitto, dove Mohamed Morsi si era accaparrato tutti i poteri o quasi, esattamente come aveva fatto l’ex presidente Mubarak? La legittimità conferitagli dalla sua vittoria elettorale, con una ristrettissima maggioranza, non lo autorizzava a reprimere le manifestazioni di piazza Tahrir.
L’attuale premier egiziano, Hazem al-Beblawi, ha fatto bene a ricordare che «l’Egitto non sarà né una repubblica islamica né una dittatura militare». Tuttavia, il sangue versato venerdì 16 agosto resterà un’onta ignominiosa per il governo in carica. Mohammed el-Baradei ha capito che era opportuno lasciare la vicepresidenza, perché la violenza omicida resta qualcosa di inammissibile.
Una parte importante del mondo arabo vive sotto tensione. In Siria un dittatore compiaciuto di sé massacra quotidianamente civili con il pretesto di combattere il terrorismo; ha distrutto Aleppo e i suoi monumenti patrimonio dell’umanità. La Libia è precipitata in un marasma tribale e religioso. La Tunisia è scossa da omicidi e attacchi violenti dei salafiti.
Il passaporto di un Paese arabo è visto con sempre più sospetto. È la decadenza che si annuncia in questi episodi, tutti caratterizzati da fanatismo e ignoranza. Se malauguratamente l’Egitto dovesse precipitare in una guerra civile all’algerina, sarà tutto il mondo arabo a subirne le conseguenze, che non potranno essere che tragiche.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
La Repubblica 18.08.13