Il Capo dello Stato ha fatto chiarezza sulla vicenda Berlusconi, riportandola alle sue giuste dimensioni, cioè privatizzandola. Non può essere fatto valere, di fronte alla legge, un plusvalore politico; non si può giocare la legittimità derivante dal voto popolare contro la legalità degli ordinamenti; non esistono eccezioni personali davanti alla norma uguale per tutti; non si può pensare a patteggiamenti fra un reo e lo Stato come se fossimo davanti a due Stati sovrani che cercano un punto d’equilibrio fra i loro interessi. In quanto rappresentante della nazione, Napolitano ha anteposto l’interesse collettivo (la stabilità politica necessaria in questa delicata fase economica) al caso personale di un pur importante uomo politico; ha distinto il pubblico dal privato; ha, insomma, disgiunto quello che Berlusconi ha sempre confuso, l’Italia e il proprietario di Mediaset. E ha implicitamente invitato il Cavaliere a fare altrettanto, ossia a non far cadere il governo, da una parte, e, dall’altra, ad affrontare l’iter che il verdetto della Cassazione gli prospetta: decadenza dal Senato, accettazione della pena, sottomissione all’incandidabilità.
Quale che sia l’esito della vicenda, ancora tutto da vedere, la domanda più importante al riguardo è quella sul destino, e sulla stessa possibilità d’esistenza, di un’eventuale destra de-berlusconizzata, o post-berlusconiana. La destra, nella storia d’Italia, ha avuto un’esistenza tenace ma criptica; dopo avere espresso e gestito il disegno innovatore di un’unità d’Italia interpretata in chiave moderata, ha più spesso ceduto la propria autonomia politica ad altre forze e ad altre culture e tradizioni, accontentandosi di vedere salvaguardati alcuni interessi economici e alcuni pregiudizi sociali all’interno di configurazioni istituzionali e ad apparati intellettuali che le erano estranei. Tali furono il fascismo (che con la destra venne a patti, lungamente, ma che alla fine ne fu rovesciato) e la democrazia cristiana, che dalla destra prese i voti ma li utilizzò in direzione diversa e a volte opposta, come si conveniva a un partito di centro che guardava a sinistra e che perseguiva, più o meno coerentemente, un suo disegno autonomo.
È con la fine della prima repubblica che la destra si è trovata sola, costretta ad assumersi responsabilità dirette, a prendere una configurazione politica precisa. E sulla sua strada non ha trovato Cavour (e neppure De Gaulle) ma Berlusconi che con il sempre valido collante dell’anticomunismo e di un ossequio di facciata al cattolicesimo, ha propagandato un liberalismo di massa ma nella pratica ha realizzato l’incontro fra un neo-corporativismo e un leaderismo populistico, fra disuguaglianza e finzione mediatica, che ha avuto l’effetto di paralizzare la modernizzazione dell’Italia, di frammentare la società, di ledere lo spirito civico e la lealtà repubblicana, di sostituire l’eccezione alla norma e la dismisura alla misura, di abituare il Paese a una politica in cui tutto è possibile perché nulla, nessun principio e nessuna regola, è rispettato. Una politica senza idee e senza futuro, quella della destra, che ha dovuto essere dapprima supplita dai tecnici e poi, ora, diluirsi in un governo di larghe intese.
Una destra senza Berlusconi oggi è difficilmente pensabile e praticabile: Fini e Monti, con i loro pur diversi insuccessi politici, dimostrano quanto la destra italiana sia poco permeabile a temi e impostazioni che, pure, sono le bandiere delle destre moderne: senso dello Stato, spirito di legalità, rigore economico. La successione a Berlusconi non è quindi una questione dinastica (Marina ha rinunciato al trono) e neppure una questione di leader-ship: il problema infatti non è solo nell’individuare chi prenderà il posto del Capo (se questi lo lascerà libero) ma è un problema d’identità. Anche la destra deve reinventarsi, insomma, e decidere che cosa vuole essere: sciogliersi in un contenitore neo-centrista, restare un insieme di cordate di interessi disparati in salsa populista (quale finora è stata), diventare un punto di raccolta di pulsioni antidemocratiche, razziste e antieuropee (ruolo assegnato finora alla Lega), o risolversi in un moderno partito conservatore, che si è rappacificato con la costituzione e con la magistratura, che non coltiva né i miti del «Berlusconi martire» né sogni autoritari, e che raccoglie l’opinione moderata in una prospettiva liberaldemocratica. In ogni caso, non si tratta di una questione interna al campo avversario: è tutto il Paese a non potersi permettere, su un lato dello scheramento politico, un vuoto che fatalmente inceppa anche l’altro e azzoppa la democrazia.
L’Unità 14.08.13