attualità, politica italiana

“In nome della legge”, di Massimo Giannini

Avevano preso l’impunità giudiziaria e l’avevano chiamata “agibilità politica”. L’ennesimo trucco, etico e politico, che violenta le parole e la verità. Per fortuna, il tentativo, tecnicamente eversivo, è fallito. Giorgio Napolitano rompe l’assedio che da settimane Berlusconi e le truppe del Pdl avevano lanciato intorno al Colle. E lo fa nel modo più fermo, chiaro e inequivoco. Lo fa da vero garante della Costituzione, quale è sempre stato nel corso di uno dei settennati più difficili dal dopoguerra. Lo fa da vero custode dei valori repubblicani, che vedono nell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e nel principio di bilanciamento e separazione dei poteri due capisaldi irrinunciabili per il buon funzionamento della vita democratica.
Il comunicato del Quirinale ha una doppia chiave di lettura, che cambia e ridefinisce il corso della legislatura, in nome della legalità e della stabilità. C’è una chiave di lettura costituzionale, che ruota intorno a tre cardini principali. Il primo cardine: le sentenze, specie se definitive, vanno sempre e comunque applicate.
Dunque, non c’è spazio per scorciatoie o manipolazioni: il Cavaliere è stato condannato a quattro anni per frode fiscale, e da questa realtà processuale non si può sfuggire.
Le decisioni di tre organi giurisdizionali si possono criticare, nel rispetto della divisione dei poteri, ma non certo disapplicare. E certo non si possono minacciare ritorsioni antidemocratiche contro la magistratura. Sembra una banalità, e lo sarebbe, in una qualunque democrazia europea. Riaffermarlo nell’Italia di oggi, è invece un grande merito civico del Capo dello Stato. Il secondo cardine: Berlusconi non andrà comunque in carcere, e questo fa piazza pulita, una volta per tutte, delle grida sguaiate e bugiarde dei falchi della destra, che urlano allo scandalo da settimane per un leader eletto e acclamato dal popolo ma condannato a concludere il suo glorioso cursus honorum
nelle patrie galere. Non andrà così, perché Berlusconi è un ultra-settantenne e perché per lui sono previste pene alternative al carcere, come per ogni pregiudicato nelle sue stesse condizioni. Il terzo cardine: la grazia, della quale nel cerchio magico berlusconiano si favoleggiava da giorni, resta al momento una chiacchiera da bar, anzi da saloon. Non ci sono le condizioni tecnico-giuridiche, perché nessuno l’ha chiesta. Se qualcuno la chiederà, il Quirinale la tratterà come tutte le altre domande di grazia: ossia valutandone attentamente il fondamento. È il massimo che il Colle può concedere e il Pdl si deve accontentare di questo.
E comunque un’eventuale clemenza inciderebbe solo sulla pena principale, cioè sulla condanna alla reclusione, e non anche sulla pena accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici. Questa, come si legge esplicitamente nel testo del Colle, nessuno la potrà mai togliere a Berlusconi, nel momento in cui la Corte d’appello l’avrà ricalcolata.
Dunque, non ci sono spazi per alcun salvacondotto, per il quale, nonostante la propaganda sediziosa degli esagitati dirigenti del partito del popolo delle libertà, mancano le condizioni etico-politiche.
Ed è proprio qui che s’innesta l’altra chiave di lettura dell’intervento di Napolitano, che è appunto tutta politica, e che discende direttamente e naturalmente dalla chiave di lettura costituzionale. Anche in questo caso, i cardini del discorso di Napolitano sono almeno due. Il primo cardine: il governo Letta, a questo punto, esce decisamente rafforzato dalla nota del Colle. Per la semplice ragione che viene riaffermato
e rienfatizzato il suo carattere di assoluta eccezionalità, ma al tempo stesso di assoluta necessità: dalle parole del Capo dello Stato si evince chiaramente che nell’attuale fase di crisi acuta che l’economia sta attraversando, non sarà consentito alcuno scioglimento anticipato delle Camere soltanto per opporsi ad una sentenza della Corte di Cassazione. Questo disarma ulteriormente e platealmente la lotta esasperata portata avanti fino a questo momento dal pregiudicato Berlusconi.
Il secondo cardine: se non ci sono margini per garantire in altri modi, impropri e inaccettabili, la cosiddetta “agibilità politica” di Berlusconi, allora questo significa che in un modo o nell’altro il suo destino politico è segnato. Per questo, tocca solo al Cavaliere e al suo partito decidere il futuro della destra italiana. Tocca al Cavaliere decidere se il destino dei sedicenti moderati italiani si debba esaurire con l’avventura autocratica e cesarista della vecchia o nuova Forza Italia, dove il potere si tramanda magari di padre in figlia per diritto dinastico, oppure se si possa aprire una fase nuova, nella quale il partito-azienda, guidato da un solo padre-padrone, può evolvere verso una dimensione finalmente plurale della leadership. E tocca ai colonnelli del Pdl decidere se il destino dei cattolici liberali e dei laici liberisti si debba esaurire con la sventura sfascista
e populista del forzaleghismo, o si possa aprire un ciclo diverso, nel quale il partito di plastica può evolvere verso l’identità risolta dei conservatori di tutta Europa.
È una scelta complessa, dopo il Ventennio dominato dal sedicente “statista di Arcore”. Ma è ormai una scelta irreversibile. La posta in gioco, come ha chiarito implicitamente la nota del presidente della Repubblica, non è e non è mai stata quella di eliminare un avversario politico per via giudiziaria, come è andata ripetendo per anni, mesi, settimane e giorni l’armata Brancaleone riunita intorno al Cavaliere. Molto più semplicemente, si tratta di riaffermare e salvaguardare non una persona, ma lo Stato di diritto.
E si tratta di ricreare le condizioni perché nasca finalmente una destra normale, anche in questo sciagurato paese. L’Italia può tornare ad essere una grande democrazia occidentale. Non può ridursi a essere una piccola satrapia mediorientale.

La Repubblica 14.08.13

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