L’incessante mancanza di rispetto che investe la Ministra Kyenge non nuoce solo a lei. Il dileggio e il disprezzo che piovono dall’alto – da importanti cariche dello Stato, da leader politici, compreso il pugnace Bossi, da accademici ed editorialisti – legittimano l’insulto stradale, l’aggressione spicciola. Espongono a un maggior rischio non solo le persone di origine immigrata che vivono in Italia, ma anche chi si trova nel nostro Paese come turista o come uomo d’affari straniero, se gli capita di avere una fisionomia poco europea. E questo ovviamente nuoce all’Italia, alla sua immagine internazionale, ai suoi rapporti commerciali, al suo turismo.
Una commessa italiana di Zurigo che ha fatto notare alla supermiliardaria conduttrice nera Oprah Winfrey quanto il costo di una borsetta (27.000 euro, sic!) potesse risultare eccessivo per le sue tasche è finita in prima pagina; ma forse l’accorta commessa avrebbe messo in guardia qualunque signora priva di patenti indicatori di esagerata ricchezza. Chi dice a Kyenge che non può fare la Ministra, invece, lo dice proprio perché non vuole accettare in quella posizione una donna di colore. Dietro questo indecoroso rigetto individuale c’è un più ampio e pericoloso rigetto. C’è un rifiuto del presente destinato a produrre seri problemi nel futuro.
La popolazione del presente italiano, che piaccia o meno, è fatta anche di immigrazione e di post-immigrazione. Gli stranieri residenti in Italia al primo gennaio 2013 erano 4.387.721, il 7,8% della popolazione, e tra questi non si computano gli individui che, pur essendo di origine straniera, come Kyenge o la sua ex collega Idem, sono diventati cittadini italiani: nel solo 2012 sono stati più di 65.000. I residenti stranieri aumentano: solo nell’ultimo anno di 334.000 unità, 8,2% in più rispetto all’anno precedente. E intorno a queste cifre, con varie oscillazioni, si sono assestati gli aumenti degli ultimi anni, anche se dobbiamo aspettarci nel breve termine un rallentamento legato alla crisi economica. Considerare l’immigrazione un fenomeno reversibile significa negare l’evidenza, affrontarlo a suon di insulti per incassare qualche voto è un atto di consapevole irresponsabilità. Anche se nel nostro Paese di atti di irresponsabilità politica se ne commettono in buon numero, non è un buon motivo per insistere. Partiamo dalla constatazione che la popolazione italiana futura sarà composta sempre più da individui e famiglie di provenienze nazionali e di etnie diverse. Occorre gestire questa potente trasformazione sociale con la prudenza che merita. Non è facile, perché le manifestazioni di insofferenza dimostrano che non si tratta solo di integrare gli immigrati, ma che si deve pure integrare quella parte non piccola di italiani che non accetta di vivere in un paese di immigrazione.
Chi oggi non vuole cambiare la legge sulla cittadinanza, chi rifiuta forme moderate di ius soli, manifesta un più ampio rifiuto dell’immigrazione e dei suoi figli. Nel 2012 sono nati 80.000 bambini stranieri, ed è bene essere consapevoli che la stragrande maggioranza di loro resterà a vivere in Italia: farli diventare italiani prima dei 18 anni è solo ragionevole. Tuttavia, anche chi accetta l’immigrazione e vuole giustamente cambiare la legge sulla cittadinanza in senso più liberale, deve tener conto della realtà dei fenomeni migratori, dei loro aspetti presenti e delle probabili evoluzioni future. È bene non ripetere l’errore fatto con la riforma della cittadinanza del 1992, che guardava al passato: tutta rivolta a premiare i discendenti degli emigrati italiani all’estero, quando l’Italia era diventata più destinazione che fonte di emigrazione.
Il grosso delle proposte in discussione mira a favorire i bambini nati e istruiti in Italia, e a ridurre i tempi di residenza richiesti agli adulti per fare domanda di naturalizzazione (ora sono tra i più lunghi d’Europa). Si tratta di proposte che circolano dalla fine degli anni Novanta: vanno benissimo ma hanno bisogno di una bella rinfrescata. È vero che il grosso degli immigrati è qui per restare, ma non tutti lo fanno o lo faranno. Gli stranieri (anche una volta naturalizzati) possono decidere di spostarsi in un altro Paese, o tornare in patria. Nel 2012 hanno lasciato l’Italia almeno 38.000 immigrati (probabilmente molti di più, visto che non tutti si cancellano all’anagrafe). Non sappiamo, invece, se e quanti «nuovi cittadini», immigrati naturalizzati italiani, abbiano lasciato il Paese. Chiediamoci se non sia il caso di individuare le condizioni in base alle quali si trasmette la cittadinanza da parte di naturalizzati che rientrano nella patria di origine o vanno altrove (e, in parallelo, ragionare sui requisiti da richiedere ai discendenti di emigrati italiani per ereditare la cittadinanza risiedendo all’estero). Insomma, occorre ideare una riforma della cittadinanza che tenga conto della mobilità.
Il vecchio accordo italo-argentino del 1971 prevedeva che, a turno, la cittadinanza del Paese in cui non si risiedeva fosse «messa in sonno»: non era una cattiva soluzione. Invece, con la riforma costituzionale del 2001 abbiamo assegnato ai discendenti di emigrati italiani che magari non hanno mai visitato il nostro Paese il diritto di eleggere propri rappresentanti sulla base di stravaganti macro-circoscrizioni, e sappiamo quanti pasticci ne siano nati.
D’altra parte, occorre regolare il pur auspicabile incremento delle carriere politiche dei «nuovi cittadini». Si vuole chiedere un supplemento di anni di residenza, dopo la naturalizzazione, per accedere alle massime cariche pubbliche? Si vuole riservare la carica più alta, quella della Presidenza della Repubblica, ai nati in Italia, come avviene negli Usa? Si vuole chiedere a chi viene eletto in Parlamento, o nei consigli regionali, di rinunciare alla cittadinanza del Paese di origine? Sono domande legittime, che non implicano necessariamente risposte affermative, ma richiedono una riflessione, specie in un contesto di crescente mobilità. Non vorrei, però, che la complessa questione dell’integrazione si avvitasse intorno al tema della cittadinanza e dei diritti politici. Abbiamo assistito a fallimenti nei percorsi di integrazione anche in Paesi a cittadinanza facile, come la Francia o la Gran Bretagna. Purtroppo non esistono ricette facili per integrare. C’è, però, una ricetta facile per sabotare l’integrazione e aumentare conflitti interetnici: esibire disprezzo culturale nei confronti degli immigrati. Se al rispetto umano non ci spinge un’auspicabile sensibilità, ci spinga almeno il calcolo razionale dei danni che fomentare i conflitti comporta.
La Stampa 13.08.13