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“L’arma del lavoro contro la recessione”, di Ronny Mazzocchi

Alcuni mesi fa il Ministro dell’Economia e delle Finanze Fabrizio Saccomanni affermò che la crisi degli ultimi cinque anni è addirittura peggiore di quella del 1929. Non è questa la sede più appropriata per stilare una classifica delle varie crisi che si sono succedute nell’ultimo secolo e mezzo nel mondo occidentale. Tuttavia già il fatto che si sia potuto ripetere un episodio anche solo lontanamente paragonabile a quella che è passata alla storia come il più grave crisi del XX secolo dovrebbe essere sufficiente a mettere in discussione quei paradigmi teorici tutt’ora dominanti che considerano il capitalismo un regime economico e di produzione sostanzialmente stabile e quindi non bisognoso di essere controllato, vincolato e guidato. Ma purtroppo c’è di peggio. Lo storico dell’economia Robert Skidelsky, noto soprattutto per essere il biografo di Keynes, scrisse nel 1967 un agile volumetto dal titolo «Politicians and the Slump» in cui raccontò con grande abilità narrativa e con dovizia di particolari l’esperienza del governo laburista inglese del 1929-31 alle prese con la Grande Depressione. A rileggerlo oggi si ritrovano gli stessi errori e le stesse discussioni a cui abbiamo assistito negli ultimi due anni e mezzo nel nostro Paese. Cambiano i nomi delle cose – «austerity» invece di «treasury view» – ma la sostanza è identica. Così come i risultati, purtroppo. Da questo punto di vista il Libro Bianco per il Piano del Lavoro della Cgil («Tra crisi e Grande Trasformazione», Ediesse, 2013, pp. 630, ¬30,00) segna una netta discontinuità di impostazione, ben evidenziata dal saggio introduttivo di Laura Pennacchi, che del volume è anche la curatrice. Il libro non si limita soltanto ad una netta e ben argomentata presa di distanza dalle politiche di austerità e di critica alle tendenze ulteriormente restrittive incarnate sia dalla riforma della governante economica europea sia dal Fiscal Compact. Al contrario, scorrendo i vari articoli che compongono il volume è evidente che si tratta di un piano che punta ad un rilancio dello sviluppo economico del Paese attraverso il lavoro. Il rischio sempre più concreto che il tanto auspicato superamento della recessione non porti con se una contemporanea riduzione del numero dei disoccupati rende del tutto velleitaria l’idea che sia sufficiente un generico rilancio della crescita per alleviare il dramma sociale e personale dei molti che con la crisi hanno perso la loro occupazione. Nel Piano per il Lavoro viene così invertito l’ordine dei fattori: non il rilancio della crescita per creare lavoro, ma creare lavoro per rilanciare la crescita. Interessanti sono in tal senso due direttrici su cui si muove l’intero volume: la creazione diretta di lavoro nei vari settori economici e l’ambizione a creare del buon lavoro (e fra questo vanno segnalati in particolar modo i saggi sulla democrazia nei luoghi di lavoro). Molto apprezzabile il fatto che, nel parlare di lavoro, ci si sia definitivamente emancipati dalla dittatura giuslavoristica degli ultimi vent’anni, ovvero dall’idea che disoccupazione e precarietà fossero un problema di errato design contrattuale e che fosse sufficiente inserire sempre maggiori dosi di flessibilità interna o esterna per rilanciare occupazione e produzione. La disoccupazione è tornata ad essere quello che in realtà è sempre stata: un problema economico, con drammatiche ricadute sociali. L’altra cosa da cui ci si è emancipati – per altro strettamente connessa alla prima – è l’idea che la mancanza di lavoro sia dovuta a malfunzionamenti del mercato del lavoro. Il libro affronta invece molto attentamente i problemi presenti sugli altri mercati – sia quello finanziario e bancario che quello dei beni e servizi finali – con un ventaglio di soluzioni davvero vasto e di sicuro interesse. Infine è degno di nota il tentativo di coniugare le politiche di breve periodo con quelle di lungo periodo in un modo da inserire gli interventi legati all’attuale emergenza occupazionale in un quadro di medio/lungo termine volto a fare del lavoro uno – se non addirittura il principale – dei motori della crescita. Il Piano per il Lavoro si presenta quindi come un contributo interessante per quel dibattito sui temi del rilancio economico che dovrebbe coinvolgere tutte quelle forze politiche e sociali stanche di tutte quelle vecchie ricette ormai incapaci di dare risposte ai problemi del nostro Paese.

L’Unità 12.08.13