Occorre un nuovo modello economico: il nanismo delle nostre aziende frena gli investimenti in innovazione e impedisce la creazione di posti di lavoro
Da ormai un paio d’anni, il dibattito in Italia è incentrato su occupazione e crescita economica. Sia a destra che a sinistra ci si interroga con urgenza crescente su come uscire dalla crisi. L’errore di fondo che accomuna gran parte degli interventi in questo dibattito è pensare all’Italia come ad un malato con una malattia sì acuta, ma passeggera. Si crede che l’Italia stia soffrendo un problema ciclico di breve periodo, indotto in buona parte dalla recessione mondiale degli ultimi anni.
Pensare ai problemi dell’Italia come legati ad un problema transitorio legato alla recessione è un errore grave, perché spinge il governo e le forze politiche a pensare alla politica economica in termini di stimolo di breve periodo: interventi piccoli, disegnati per ridare fiato all’economia per sei mesi o un anno. La realtà è purtroppo molto più grave: i problemi economici italiani sono strutturali e stanno decimando le capacità economiche del paese da decenni.
Da sempre i cicli di recessione ed espansione economica determinano il numero dei posti di lavoro e i salari, e in questo senso gli anni dal 2010 a oggi sono stati particolarmente duri. Ma recessioni ed espansioni sono tuttavia fenomeni di breve periodo. Ben più importanti sono le tendenze di lungo periodo, perché sono quelle che determinano il nostro tenore di vita in maniera molto più profonda e duratura.
La bassa crescita
Il Pil italiano è aumentato del 55,7% negli anni Sessanta, del 45,2% negli anni Settanta, del 26,9% negli Ottanta, del 17% nei Novanta e del 2,5% nel decennio 2000-2010. Negli ultimi 3 anni è addirittura diminuito. Questo dinamica non ha paragoni negli altri paesi occidentali. Siamo un paese in declino, e questo declino sta andando avanti da decenni. L’unica differenza degli ultimi anni è che il declino è accelerato. La bassa crescita che ha caratterizzato l’Italia negli ultimi tre decenni, e lo stato anemico del mercato del lavoro hanno sicuramente numerose e complesse cause. È indubbio però che una delle ragioni chiave della debole domanda che ormai caratterizza il mercato del lavoro italiano in maniera strutturale è il risultato di un panorama industriale vecchio, che mal si addice alla nuova economia dell’innovazione. Produciamo beni e servizi troppo poco innovativi, la cui domanda mondiale è sempre più debole – perché sempre di più i consumatori vogliono prodotti innovativi e la cui offerta mondiale è sempre più forte – perché ci sono sempre più paesi in via di sviluppo in grado di farci concorrenza nei settori tradizionali.
La sfida dell’innovazione
L’Italia non è l’unico paese ad affrontare queste sfide. In tutti i paesi occidentali il mercato del lavoro sta conoscendo mutamenti profondi. Il progresso tecnologico e la globalizzazione stanno riconfigurando la tipologia di beni che sono prodotti oggi, la modalità, e soprattutto la località, in cui vengono prodotti. In passato i buoni impieghi e i salari elevati erano legati alla fabbricazione su larga scala di prodotti manifatturieri. Il posto in cui si creava il valore economico era la fabbrica. Oggi però la realizzazione di beni che chiunque è in grado di riprodurre ha conservato poco valore.
Come abbiamo visto nei due articoli precedenti (“Così America ed Europa dicono addio alle fabbriche” e “L’America riparte da Internet. Le città hi-tech creano più lavoro“), produrre oggetti fisici come vestiti, telefoni o mobili non genera più molto valore aggiunto, e ancor meno posti di lavoro. La concorrenza globale è altissima, e questo implica margini molto bassi. In più, nuovi macchinari e nuove tecnologie permettono di produrre sempre di più usando sempre meno lavoratori. I dati parlano chiaro: l’occupazione nell’industria sta calando da decenni in tutti i paesi occidentali. Negli Stati Uniti la percentuale di occupati sul totale della forza lavoro si è quasi dimezzata. Lo stesso vale per Italia, Gran Bretagna, Giappone e persino per la Germania. Ma se questi trend nell’industria sono comuni a tutti i paesi sviluppati, non tutti hanno reagito nella stessa maniera. Mentre gli Stati Uniti hanno completamente riorientato il proprio panorama produttivo verso il settore dell’innovazione, molti paesi europei, ed in particolare l’Italia non si sono adeguati e sono mal preparati alla nuova economia globale.
Nei prossimi decenni la competizione globale sarà incentrata sulla capacità di attrarre capitale umano e imprese innovative. I buoni lavori e i buoni salari sono sempre più connessi alla produzione di nuove idee, nuovo sapere e nuove tecnologie. L’agglomerazione geografica delle industrie nuove e del capitale umano in poche regioni chiave sarà sempre più marcata. Il numero e la forza degli hub dell’innovazione di un Paese ne decreteranno la fortuna o il declino. I luoghi in cui si fabbricano fisicamente le cose seguiteranno a perdere importanza, mentre le città con un’alta percentuale di lavoratori a scolarità elevata diventeranno le nuove fabbriche, centri per la produzione di idee, sapere e valore.
Negli anni a venire, le regioni del Vecchio continente che riusciranno ad attrarre innovazione e capitale umano saranno quelle vincenti, proprio come sta già succedendo in America per gli hub dell’innovazione. Le regioni d’Europa che non riusciranno ad attrarre innovazione e capitale umano saranno destinate a un inevitabile declino, proprio come sta già avvenendo per la terza America, quella degli ex centri industriali in crisi.
Nanismo e poca innovazione
In questo quadro, l’Italia ha accumulato un ritardo enorme, causato da due debolezze strutturali della sua economia. In un mondo in cui l’investimento e le industrie ad alto valore aggiunto continuano ad accentrarsi geograficamente, l’Italia rischia di diventare per l’Europa quello che la terza America è per gli Stati Uniti, ovvero un insieme di città e distretti industriali in declino lento ma irreversibile. Il primo dei problemi di fondo è che, da sempre, le imprese italiane investono poco in ricerca e sviluppo, e questo le rende deboli oggi, ma ancora di più in futuro. L’aumento annuo della produttività, uno degli indicatori chiave del tasso di innovazione del paese, è precipitato dal 2,8% negli anni Settanta a zero nel passato decennio.
Parte della scarsa propensione delle imprese italiane a investire in innovazione riflette aspetti culturali. In buona parte, però, riflette scelte politiche sbagliate, e in particolare un sistema di incentivi che penalizza la crescita e l’investimento nell’innovazione.
Il nodo tasse-lavoro
Le imprese italiane subiscono una pressione fiscale altissima, e una serie di vincoli nel mercato del lavoro asfissianti. Questa pressione e questi vincoli sono, di fatto (se non di diritto), tanto più alti quanto più grandi sono le imprese. Migliaia di piccole imprese di successo rinunciano o ritardano ad ampliarsi perché ciò significherebbe maggiore pressione fiscale e vincoli più stringenti. Questo chiaramente scoraggia la crescita occupazionale e crea un panorama industriale fatto di una moltitudine di imprese familiari con pochi dipendenti, e di un numero modesto di imprese con dimensioni e ambizioni globali.
La manifattura non basta più
Se la diffusione di imprese familiari era uno dei punti di forza del sistema produttivo italiano negli anni Cinquanta e Sessanta, quando la manifattura tradizionale rappresentava l’industria trainante, è diventato un punto di debolezza nel nuovo millennio, quando l’industria tradizionale è in declino e le occupazioni del futuro sono quelle ad alto contenuto di capitale umano e di innovazione. La ragione è molto semplice: l’investimento in ricerca e sviluppo è un costo fisso, e quindi ha senso per imprese grandi ma non per imprese piccole. Che un’impresa venda un’unità del prodotto o un milione, il costo dell’investimento in nuovi brevetti, nuove tecnologie o nuovi prodotti, è lo stesso, mentre il beneficio è ovviamente maggiore quanto maggiore è la dimensione dell’impresa. Il nanismo delle imprese italiane e la loro scarsa propensione all’innovazione rappresentano un costo per il paese in termini di mancati posti di lavoro. Se il panorama produttivo italiano non cambierà in maniera profonda, questa debolezza strutturale del sistema produttivo porterà a un declino inarrestabile nei decenni futuri.
La posizione periferica
Un secondo problema strutturale dell’Italia è che ha una posizione sempre più periferica in gran parte dei settori nuovi, sia dal punto di vista culturale, che istituzionale che logistico. Nella nuova economia della conoscenza, le capitali dell’innovazione tendono a diventare sempre più forti e la periferia sempre più debole. Questo accentramento geografico dell’attività innovativa è una dinamica sempre più importante nei settori caratterizzati da alta creatività e innovazione. Questa dinamica presenta un problema fondamentale per l’Italia, perché significa che non avere industrie innovative oggi renderà ancora più difficile attirare industrie innovative in futuro.
Il crollo del distretto hi-tech
Si consideri, per esempio, la scomparsa dal sistema italiano di due industrie chiave, quella del computer e quella della farmaceutica. Negli anni Ottanta, l’Italia aveva un inizio di industria del computer, in gran parte legata alla Olivetti. Intorno alla sede di Ivrea, si era creato un piccolo distretto dell’informatica, con alcune startup del software e dell’hardware, per lo più focalizzate sul mercato nazionale. Purtroppo il distretto si è rivelato troppo piccolo per competere su scala globale, ed è stato completamente spazzato via dai rivali americani e asiatici più grandi e innovativi. Oggi la quasi totalità di computer, tablet, console per giochi elettronici, cellulari, smartphone, software e servizi internet usati in Italia sono progettati e realizzati altrove.
La chiusura dei laboratori
Una dinamica ancora più dolorosa ha caratterizzato la storia dell’industria farmaceutica. Negli anni Settanta e Ottanta, questa contava al suo interno alcune realtà dinamiche e innovative, capaci di generare brevetti con potenzialità commerciali di respiro globale. Ciò si traduceva in decine di migliaia di posti di lavoro, ottimi salari e un indotto di notevoli proporzioni. Però negli anni Novanta, in un processo di riorganizzazione e accentramento della ricerca a livello mondiale, la quasi totalità dei laboratori di ricerca italiani è stato chiuso, e le loro attività sono state accentrate in posti come il New Jersey o la Svizzera, che già avevano numerosi altri laboratori e un ecosistema innovativo più ampio. Il panorama della ricerca italiana fu considerato troppo periferico per meritare gli enormi investimenti in ricerca e sviluppo di un’industria che diventava sempre più globale.
L’effetto sull’occupazione
Per l’Italia, la perdita pressoché totale dei settori del computer e della farmaceutica ha significato una perdita ingente in termini di occupazione presente e ancor più di occupazione futura perché, come vedremo, queste sono due tra le industrie più promettenti per i decenni a venire. Ma l’aspetto più preoccupante di questa perdita è ciò che essa significa per il futuro dell’intero paese, a prescindere da quelle due industrie specifiche.
Viviamo in un’economia globale in cui le città, regioni e nazioni con economie più forti si vanno rafforzando, mentre le città, regioni e nazioni con economie più deboli vanno indebolendosi. Nonostante il gran successo di formule come «annullamento delle distanze» o «mondo piatto», le industrie innovative sono sempre più concentrate geograficamente. La posizione nettamente periferica dell’Italia in gran parte dei settori nuovi non fa ben sperare per il futuro economico del Paese.
* Enrico Moretti, docente di Economia alla University of California di Berkeley, è autore di «La nuova geografia del lavoro»
da www.lastampa.it