Nonostante la calura, sono giorni di duro scontro politico. È in gioco il destino del governo, della legislatura, delle riforme. L’esito di questo scontro segnerà l’uscita o meno dalla seconda Repubblica e condizionerà il ruolo dell’Italia in Europa, a partire dalla sua capacità negoziale e dalle variabili legate alle politiche di bilancio. Berlusconi fa l’incendiario dopo la sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna per reati comuni e, di conseguenza, ne ha delegittimato la leadership politica. Tuttavia, è diffusa l’impressione che la chiamata alle armi del Cavaliere mobiliti solo una cerchia ristretta di cittadini Una cerchia molto più ristretta del passato. Perché i pensieri, le preoccupazioni degli italiani oggi sono rivolti altrove. Ai figli che non trovano lavoro, alla crisi che minaccia le famiglie, alla società che perde fiducia, alle diseguaglianze che sottraggono diritti e anche competitività.
La condanna di Berlusconi resta uno spartiacque politico. La scelta che ha di fronte il Pdl, e anzitutto il suo leader-padrone, è strategica. Se verrà imboccata la strada della successione dinastica, o quella del conflitto istituzionale, o ancora quella di un’evoluzione democratica della destra, le conseguenze riguarderanno l’intero sistema. Ma tutto ciò che attiene alle dinamiche della politica appare oggi autoreferenziale, tremendamente di- stante dai cittadini e dalla loro vita reale. Non è solo colpa dei partiti e dei governi. È un fenomeno epocale la crescente impotenza della politica. Berlusconi, vero apripista dell’anti-politica, ha beneficiato di questa divaricazione tra la capacità di guida democratica e la pretesa di autogoverno dei mercati, della finanza, dei poteri «reali». Berlusconi ha prosperato nella contrapposizione tra società civile e politica. Si è proposto come l’uomo nuovo che veniva dall’impresa e nulla aveva a che fare con le convenzioni costituzionali e democratiche.
E oggi proprio questo dualismo ne accentua la sconfitta. Berlusconi ora si fa paladino del primato della politica (sulla magistratura e i poteri neutri). Alza la bandiera della riforma della giustizia (dopo averla fatta marcire per anni nell’inefficienza). Reclama niente- meno che «agibilità politica» (espressione cara all’estremismo a partire dagli anni 70). La società reale però guarda altrove. L’incantatore non incanta più come prima. Non riesce a distinguersi da quel «teatrino della politica» che ha disprezzato per due decenni. Il mix di sfiducia e di ripiegamento individuali- sta – che Berlusconi è riuscito a catalizzare in chiave anti-comunista, anti-tasse, anti-pubblico – oggi è il vento che soffia sulle vele di Grillo.
Tutto ciò rende la battaglia politica di oggi molto difficile per una sinistra che non intenda rinunciare alla propria missione nazionale. Perché la politica è fatta di compromessi, di istituzioni da tenere vive, di procedure. Ma le domande più forti nella crisi sono quelle che riguardano la vita sociale, le opportunità concrete di lavoro, le speranze di futuro, i diritti negati. È a queste domande che deve rispondere la politica se vuole guarire dall’impotenza e tornare ad essere significativa per i cittadini e legata a un’idea di comunità. Da questo dipendono non solo le sorti di un partito, ma quelle della democrazia, e probabilmente dell’intera Europa.
Si può stare al governo con il partito di Berlusconi? Si può andare al voto senza una riforma elettorale decente? Che senso ha cambiare solo la legge elettorale, se il bicameralismo paritario rischia di favorire comunque l’ingovernabilità? A sinistra si risponde in modo diverso a queste domande. Tutti sanno che, se il governo Letta arrivasse fino alla fine del 2014, potrebbe condurre al meglio la sua partita in Europa e potrebbe anche restituire al Paese un sistema politico più funzionante (parliamo di una forma di governo parlamentare razionalizzato, non certo dell’assurda pretesa di riscrivere in nome del presidenzialismo l’intera seconda parte della Costituzione). Tutti però sanno anche che non si può tenere in vita il governo a tutti i costi, che ci sono limiti invalicabili.
Uno di questi limiti è il rispetto della legalità costituzionale: le condanne definitive vanno rispettate ed eseguite; le modalità di esecuzione sono decise in autonomia dai magistrati; la politica non può interferire pena lo stravolgimento del principio di uguaglianza della legge. Un altro limite è il buon senso e l’equità delle politiche economiche: sia pure in un contesto di governo senza intese – sostenuto per necessità da forze politiche antagoniste – il compromesso non può tradire la ragionevolezza. Non è possibile esentare per due miliardi la prima casa del 7% più ricco della popolazione, e far pagare questo costo ai cassintegrati e agli esodati. Se il governo fosse sotto la responsabilità della sinistra, si dovrebbero cominciare la detassazione dall’Irpef e dal cuneo fiscale del lavoro. Visto che la destra partecipa alla maggioranza, si discuta pure di Imu. Tuttavia, non si può accettare un impianto così classista e anti-economico.
Può darsi che le intenzioni di Berlusconi siano tutte politiche e dipendano dal desiderio di oscurare, per qualche giorno, la condanna. La sostanza però non cambia. Il governo Letta può dare ancora al Paese. Ma la verifica sta nei fatti. Nella capacità di incidere sulla società. Di legare, come lo stesso premier ha auspicato, nuova occupazione con questa timida ripresa economica. Lo chiedono i cittadini. Lo chiedono anche gli elettori del Pd, che badano molto più alla sostanza che non alle regole congressuali. La prova del fuoco sta nelle politiche reali assai più che nelle tattiche e nei posizionamenti. L’Italia ha bisogno di politica. Domanda politica più di quanto non sembri. La politica però deve rimettere i piedi per terra.
L’Unità 11.08.13