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“Dalla crisi un Paese diverso”, di Mario Deaglio

Sul finire del 2008, mentre le Borse precipitavano e le imprese del suo paese denunciavano perdite stellari, il presidente americano George W. Bush fece di tutto, nei suoi discorsi e nei documenti pubblici, per non usare mai la parola crisi, preferendo termini più blandi e meno allarmistici come «rallentamento produttivo» o «inversione di tendenza». Il che fu negativo, per gli Stati Uniti e per il mondo, in quanto portò a un’iniziale sottovalutazione di quanto stava effettivamente succedendo e determinò un grave ritardo negli interventi per arginare gli sviluppi negativi.
Nell’Italia (e nell’Europa) di oggi, succede l’esatto contrario: gli operatori della politica e i mezzi di informazione hanno improvvisamente scoperto «la ripresa». Mentre fino a qualche settimana fa si affannavano a raccontare che stiamo vivendo la peggiore contrazione di produzione e consumi dai tempi del dopoguerra, ora la «ripresa», pur indefinita e impalpabile, riempie i discorsi e comincia a colorare di rosa, sia pure di un rosa pallidissimo, aspettative e speranze.

E così come per gli Stati Uniti fu dannoso non parlare mai di una crisi in atto trattandola come non esistente, per l’Italia (e l’Europa) può risultare molto dannoso parlare ossessivamente di una probabile ripresa futura trattandola come già presente.

Su queste colonne, più di un mese fa, si pose l’accento sui segnali positivi trascurati dell’economia, i «fili d’erba» che crescevano in silenzio. Questi fili d’erba si stanno moltiplicando e il prato non è di un triste color marrone; si può dire con una certa sicurezza, però, che l’economia «va» non già quando l’erba sta crescendo ma solo quando il fieno è stato falciato e raccolto e ci si prepara a seminare per l’anno successivo.
Secondo il filone tradizionale degli studi sulla congiuntura, una crisi può considerarsi superata solo dopo tre trimestri consecutivi di crescita del prodotto interno lordo, ossia dopo nove mesi di gestazione. Il che porta a concludere che nel migliore dei casi – se il terzo trimestre 2013 mostrerà un primo (necessariamente timido) segno positivo – solo alla fine di marzo del 2014 potremmo festeggiare la nascita del «nuovo bambino» che viene concepito in questi mesi, ossia della nuova fase espansiva. Di qui ad allora, un aborto, per cause nazionali o internazionali, è purtroppo possibile in qualsiasi momento.

Il motivo per cui politici, mezzi di informazione e normali cittadini si affannano a sperare e ad annunziare l’immediata uscita dalla crisi sembra essere di tipo emotivo: è convinzione molto diffusa, aperta o inconsapevole, che, passata la crisi, potremo tornare a spendere come prima: potremo mandare in soffitta la «spending review» e l’Imu, regalarci una riduzione del carico fiscale e quant’altro. L’uscita dalla crisi viene, spesso inconsciamente invocata, come la restaurazione del passato mentre dovrebbe rappresentare l’abbozzo del futuro.

L’Italia del dopo-crisi non potrà quasi mai risuscitare i negozi che sono stati chiusi in questi mesi, dovrà progettare un sistema di distribuzione diverso; non potrà far ripartire un gran numero di fabbriche ormai smantellate ma le toccherà di inventare altri tipi di unità produttive, di maggiore efficienza, in grado di resistere sui mercati mondiali; non potrà tollerare i macroscopici sprechi del settore pubblico, evidenti soprattutto a livello regionale, ma dovrà disegnare in maniera radicalmente diversa il sistema produttivo, il sistema finanziario-creditizio e il sistema fiscale.

L’uscita dalla crisi deve necessariamente rappresentare un punto di partenza, non un punto di arrivo, un momento di problematicità, di scommessa, di nuova energia, non certo il recupero di antiche certezze, di antichi «diritti acquisiti», come quelli delle «pensioni d’oro» degli alti gradi della burocrazia, per i quali non esistono più né le basi né le risorse. Se non si farà così il «nuovo bambino» che vedrà definitivamente la luce alla fine dell’inverno potrebbe essere troppo gracile e avare una prospettiva di vita molto breve.
Per questi stessi motivi la ripresa non porterà a immediate inversioni di tendenza per l’occupazione.

L’economia italiana ha perso competitività per vent’anni rispetto ai suoi partner/concorrenti mondiali; recuperare quella competitività significa, nelle prime fasi di un ciclo espansivo, che da un determinato numero di occupati deve inizialmente provenire una maggiore produzione, in gran parte grazie a nuovi investimenti e nuovi prodotti. Una tendenza durevole all’aumento di un’occupazione negli anni futuri non avverrà per caso ma dovrà essere il risultato del ridisegno di un’intera società, di scelte e di programmi di investimenti nazionali ed europei frutto di riflessioni e dibattiti di cui non si vede traccia. Purtroppo il dibattito politico italiano si è arenato su problemi relativamente secondari come l’entità delle riduzioni dell’Imu e non affronta i problemi principali come le politiche di stimolo dei consumi e degli investimenti.

Questo discorso italiano può essere applicato, con le necessarie varianti, a gran parte dell’Europa. Sono largamente carenti riflessioni su ciò che vorrà o potrà essere l’Unione Europea dopo questa ripresa; proprio per la presenza di simili carenze è possibile che la ripresa futura si limiti a essere un piccolo e breve fuoco di paglia. Deve far riflettere l’esperienza giapponese: un ventennio costellato di false partenze. C’è da sperare, per l’Italia e per l’Europa che la prossima partenza, alla quale dobbiamo prepararci da subito, sia una partenza vera.

La Stampa 11.08.13