Inasprire le pene non basta, naturalmente, e forse non serve. Le buone leggi non sono quelle che nascono dalle pessime abitudini e tentano di sanarle, condonarle, depenalizzarle, regolarle e infine punire, sì, chi davvero esagera. Di quelle siamo pieni. Le buone leggi sono quelle che provano a indicare una rotta, e la tracciano. Sono quelle che tentano di definire il perimetro di ciò che la cultura civile deve (dovrebbe) ritenere giusto e lecito e non nascono allo scopo di contenere il danno dei comportamenti diffusi, illeciti o criminali, ma hanno l’ambizione di cambiare le regole della convivenza nella testa e nel cuore dei cittadini prima che nelle aule di tribunale. In questo caso inasprire la pena è eventualmente un segnale, appena un inizio. Forse un deterrente, in qualche raro caso, ma non basta e non serve. È piuttosto difficile difatti immaginare che chi massacra di botte una donna sia dissuaso dal farlo dalla consapevolezza, ammesso che ce l’abbia, che rischia cinque o dieci anni in più di galera. Non è l’ergastolo eventuale a fermare la mano di chi fa a pezzi la moglie e la seppellisce in giardino, né l’eventualità di un arresto può cambiare l’atteggiamento di chi picchia abitualmente la donna con cui vive, e se ci sono i figli ad assistere pazienza, anzi meglio così imparano subito come va il mondo. È semmai, caso per caso, l’educazione che quell’uomo ha ricevuto in famiglia e a scuola, le parole e i gesti che ha visto e sentito per decenni tutto attorno a sé, da suo padre e sua madre, nella vita e in televisione, è lo sguardo degli altri sul suo. Lo sguardo degli altri: se sia indulgente, indifferente o feroce. La disapprovazione sociale, il disprezzo di chi ti sta intorno: questo sì, forse, può fermarti.
In questo senso la parte più interessante del decreto che vuole combattere la violenza
sulle donne – violenza che dilaga da anni dietro una soglia di vigilanza laschissima, un generale compatimento compiaciuto – non è la prima, pene più severe, ma la seconda e la meno nitida, quella che parla del “pacchetto di provvedimenti di prevenzione”. Certo. È più difficile e ci vuole più tempo. Eppure non c’è altro modo che non sia quello di cominciare dalle scuole, dall’educazione in classe, dal non consentire alle femmine quello che è consentito ai maschi, dalla formazione di personale che sappia parlare ai più piccoli perché sono i bambini quelli che tornano a casa e insegnano severi agli adulti: questo non si fa. Dal rifinanziamento dei centri antiviolenza, in via di scomparsa. Dall’evitare, quando vai a denunciare che il tuo ex ti perseguita o che il tuo compagno ti riempie di botte, che non ci sia solo, come spesso accade, qualcuno al commissariato che ti dice “Signora, torni a casa”. Ci vogliono molti soldi, per fare tutto questo, ma prima ancora ci vuole la consapevolezza che si tratta di una priorità assoluta: culturale, non giudiziaria.
Perché poi le regole, quando sono da sole a combattere la loro guerra, sembrano ingiuste anche quando sono giuste. Dire che la pena sarà di un terzo più severa nel caso in cui le vittime siano incinte o mogli o compagne o fidanzate del carnefice è comprensibile, dal punto di vista del legislatore, perché sì che battere una donna che aspetta un bambino o che ha un vincolo di fiducia con chi la aggredisce è più grave. Ma stabilisce anche una discriminazione culturalmente delicatissima verso le donne che non fanno figli e non hanno legami con un uomo. In che senso uccidere una donna non sposata e non madre è meno grave? Vale forse di meno per la società?
Infine. Che la querela non sia ritirabile è decisione ottima, giacché chi è vittima di violenza è anche in genere vittima di intimidazione. Tuttavia nella grande maggioranza dei casi le donne offese non sono in condizione di denunciare. Perché non sanno, non possono, a volte perché non vogliono. Ciò che emerge alle cronache è una parte minima di ciò che accade. Ci sono dunque casi in cui si dovrebbe poter procedere d’ufficio. Non lasciare sole le donne che subiscono violenza significa anche alleggerirle dal peso di una scelta a volte tremenda, in specie se ci sono figli piccoli o se la donna dipende economicamente dall’uomo. Andare a controllare, verificare, assisterla anche se non è lei a chiederlo.
Trattare poi le minacce verbali, quando avvengono per scritto su Internet attraverso i social media, alla stregua dei vecchi biglietti sotto la porta o delle scritte sul finestrino della macchina, è semplicemente prendere atto del fatto che esistono forme di comunicazione ormai non più così nuove, adeguarsi a una realtà evidente e prenderla finalmente in considerazione.
È una buona notizia, che questo decreto ci sia. Che Josefa Idem l’abbia voluto come primo atto del suo breve mandato, sarebbe stata un buon ministro e lo sa bene Enrico Letta che dopo averla invitata a dimettersi con intransigenza fortemente diseguale ieri l’ha pubblicamente ringraziata. È una buona notizia che tenga conto della convenzione di Istanbul ratificata poche settimane fa in un’aula parlamentare deserta. Quell’aula era deserta, però. Come se questi fossero atti dovuti che non cambiano le cose, non interessano nessuno. È da quel vuoto, da quel che c’è nella testa di chi si volta dall’altra parte, che si deve partire.
******
Femminicidio, sì al giro di vite via da casa gli uomini violenti, di ALBERTO CUSTODERO
Il governo ha approvato il pacchetto di provvedimenti per fermare la violenza contro le donne vittime degli stalker. Il decreto legge prevede l’arresto obbligatorio in flagranza per maltrattamento familiare e stalking; l’aumento di un terzo della pena se alla violenza assistono minorenni o se la donna è incinta; il patrocinio gratuito; l’irrevocabilità della querela; l’allontanamento da casa del coniuge violento se l’integrità della donna è a rischio. «È lotta senza quartiere al femminicidio». Parola di Enrico Letta che così ha commentato il decreto legge approvato ieri dal governo. Il premier ha ricordato, ringraziandola, che il lavoro per il varo dei provvedimenti a tutela delle fasce deboli fu avviato dall’ex ministro per le Pari Opportunità Josefa Idem, dimessasi il 24 giugno.
Il decreto legge fornisce nuove e più efficienti armi a forze dell’ordine e magistratura per la repressione dei maltrattamenti in famiglia, delle violenze sessuali e dei reati di stalking. Insomma, si tratta di un forte segnale politico affinché non si verifichi più la tragedia «delle ferite a morte», per dirla con il progetto teatrale dedicato al femminicidio di Serena Dandini. È il ministro dell’Interno a spiegare lo spirito della norma che tutti si aspettavano visto il dilagare del femminicidio.
«Gli obiettivi sono tre — ha detto Angelino Alfano — prevenire la violenza di genere, punirla in modo certo e proteggere le vittime». Come? «Intervenendo tempestivamente prima — ha aggiunto il titolare del Viminale — proteggendo la vittima, punendo il colpevole. E, infine, agendo perché la catena persecutoria non arrivi all’omicidio».
Fra le misure varate dall’esecutivo, ci sono l’aggravante per il cyberbullismo, ovvero la violenza esercitata con i mezzi del web. Quindi, l’arresto obbligatorio per delitti di maltrattamento familiare e per gli stalker, l’irrevocabilità della querela per le violenze. E l’allontanamento del marito violento dai luoghi domestici con la forza pubblica. Per fermare l’escalation della violenza domestica (che in molti casi sfocia nell’omicidio), sarà possibile togliere la patente allo stalker — potenziale
assassino — per impedirgli di recarsi sul posto della vittima. Poiché molti casi di maltrattamenti si consumano nelle famiglie degli immigrati, è stato previsto un particolare sostegno alle vittime straniere
anche attraverso il rilascio di un apposito permesso di soggiorno umanitario. L’approvazione del decreto è stato accolto con un plauso bipartisan e unanime di tutte le forze politiche. Ma, inaspettatamente, ha incontrato le critiche degli avvocati.
Di misure «demagogiche» hanno infatti parlato i penalisti. «La materia dei rapporti familiari — spiega l’Unione della Camere Penali — si presta anche ad accuse strumentali sulla base delle quali domani si andrà direttamente in galera senza alcun filtro preliminare». «È, questo, uno scenario preoccupante — aggiungono i legali — che, se accontenta le istanze dei forcaioli equamente distribuiti tra maggioranza ed opposizione, certamente imbarbarisce il sistema».
******
“Un grande passo avanti ma le donne siano libere anche di cambiare idea”, di MARIA ELENA VINCENZI
«Credo sia un passo avanti significativo per difendere le donne». Questo il commento della scrittrice Michela Murgia. «L’unico dubbio che mi rimane è quello sulla revocabilità della denuncia ».
Per quale motivo?
«Perché spesso davanti alla ribellione della donna, e quindi davanti alla sua denuncia, si assiste a un’escalation della violenza. È una grande responsabilità che lo Stato si assume perché chi impedisce alla vittima di revocare la denuncia deve poter garantire che l’inasprimento degli abusi non ci sarà. O che se ci sarà, la donna verrà protetta. Lo dico perché nella stragrande maggioranza dei casi dal momento della querela le cose per chi ha subito violenze cominciano a peggiorare».
Quindi per lei le vittime dovrebbero poter ritirare la querela?
«Io ho sempre creduto che una donna debba avere la libertà di decidere se vuole o meno denunciare. Per questo non sono molto d’accordo con la procedibilità d’ufficio che prevede anche che possa essere il pronto soccorso a inviare una segnalazione a polizia e carabinieri. Questo vale ancora di più oggi: se una donna, a un certo punto, non se la sente di continuare l’iter processuale, deve poter fare un passo indietro. Non è giusto trasferire questo diritto alle forze dell’ordine. È un’ulteriore sottrazione che
si fa a chi di violenze già ne ha subite parecchie».
Le nuove disposizioni prevedono anche altre cose, ad esempio l’arresto in flagranza per stalking e maltrattamenti in famiglia.
«Sono d’accordissimo con tutto il resto del provvedimento approvato dal governo. Le nuove norme sono una buona cosa. Era ora».
******
“Oggi mi sento felice finalmente si è capito quanto vale la prevenzione”
«La mia è una felicità quasi intima, personale. Come fondatrice di “Se non ora quando” ma anche come donna. È un cambio di passo importante che arriva in giorni in cui ci si ritrova a chiedersi cosa è uno Stato perché ci sono rappresentanti dello Stato che insultano donne rappresentanti dello Stato. Ora, finalmente, questa misura spunta come una risposta». È un fiume in piena la registra Francesca Comencini.
Una buona notizia, dunque.
«Il comportamento che ci si aspetta da uno Stato per risolvere quella che ormai è un’emergenza del Paese: la violenza sulle donne. Storie sempre più frequenti che, finora, ci hanno raccontato che le misure preventive sono insufficienti. Moltissime volte la denuncia c’era già stata. Ora forse qualcuno ha capito che è il caso di attrezzarsi un altro modo».
Ci sono diverse novità. Qualcuna la colpisce in particolare?
«Trovo importante il fatto di dare il permesso di soggiorno alle donne migranti vittime di violenza. Perché siamo di fronte a una complicazione maggiore rispetto all’essere “solo” una donna vittima di violenza».
Che già di per sé non sarebbe poco.
«Il concetto che vorrei che passasse è che le donne picchiate hanno bisogno di essere sostenute e tutelate, ma non sono deboli. C’è il rischio che questa campagna contro il femminicidio faccia prevalere una visione della donna come soggetto debole. Si deve invece raccontare la forza della donne. Anche di quelle che subiscono violenza e denunciano, intraprendendo un percorso coraggioso. Letta ha ringraziato Josefa Idem. Io vorrei ringraziare lei e tutte quelle donne dello Stato che, aldilà della loro opinione politica, dicono la loro con autorevolezza. Donne che parlano anche di violenze ma che raccontano anche la forza delle donne e la debolezza degli uomini».
La Repubblica 09.08.13