«Sono orgoglioso, è un cambiamento radicale, un chiarissimo segnale» – così Enrico Letta. «Ci siamo attrezzati per prevenire, punire, proteggere» – aggiunge Angelino Alfano. È stato appena approvato il decreto legge contro il femminicidio. Ambedue hanno lo sguardo fermo e sereno, da veri uomini di Stato: niente ammicchi, niente visi dell’arme. Berlusconi concedente, dopo giorni e giorni che tutti gli occhi erano puntati esclusivamente alla Corte di Cassazione, al Palazzaccio allusivo di sventure, oggi finalmente parlano di nuovo al Paese. E alle donne in particolare, le più insofferenti dei giochi politicanti, le più trascurate nonostante le promesse elettorali.
Che sollievo. Almeno per loro. E per le donne?
Vediamo. Innanzitutto questo è un decreto all’insegna della «sicurezza». Nonostante il lavoro della ministra dimissionaria per le pari opportunità Josefa Idem, che Letta ha cavallerescamente ringraziato, e quello, presumibilmente sotto traccia, della sottosegretaria Cecilia Guerra, è dal Viminale che viene l’impronta. Salvo augurabili sorprese al momento della divulgazione del testo ufficiale, non è stato stanziato un solo euro per il rifinanziamento delle case a tutela delle donne maltrattate, picchiate o violentate. E questo, malgrado il fatto che durante il recente dibattito parlamentare sul recepimento della convenzione di Istanbul, la misura fosse stata considerata uno dei punti più qualificanti di una politica innovativa ed efficace.
Poi è appunto un decreto. Ci siamo talmente abituati a considerare il Parlamento un catino ribollente di interventi sgangherati e di furie incomprensibili, che ci sfugge quanto sia inappropriato un decreto su questa materia in una legislatura dove la parlamentari sono il 30% e non poche di loro si sono costruite competenze e sensibilità degne di essere considerate.
Tant’è che, al momento della conversione in legge del decreto «svuota carceri», sono state proprio le deputate e le senatrici ad accorgersi che, se non si fosse aumentata a cinque anni la pena per lo stalking (persecuzione sistematica), gli stalker avrebbero goduto di un’insperata indulgenza.
L’elemento più positivo è che finalmente il governo ha registrato che più del 70% delle violenze avvengono in famiglia, oppure in relazioni parentali o «affettive», dunque è in quel nucleo, che secondo i vecchi giuristi andava solo lambito e mai aggredito dal diritto penale, che bisogna avere il coraggio di affondare il bisturi con la giusta severità. Questo è il senso delle aggravanti per il coniuge o il compagno, e anche delle aggravanti ancora maggiori se la violenza avviene quando la vittima è in stato di gravidanza o in presenza di minori. E della norma che ha fatto più scalpore: «fuori casa il coniuge violento». Sorvegliato, immaginiamo, e tenuto a debita distanza dalla dimora coniugale.
Resta il problema della procedibilità su cui tanto si discusse prima del 1996, anno dell’approvazione della legge sulla violenza sessuale. Allora si temeva un «doppio regime», querela in famiglia e procedibilità d’ufficio nei rapporti esterni e soprattutto si contava, forse con eccesso di ottimismo, sulla forza delle donne e nella loro ribellione, per cui, una volta decisa la querela, non sarebbero tornate sui loro passi.
Oggi procedibilità d’ufficio e querela irrevocabile spostano sulla collettività molte responsabilità. E bisogna che la collettività tutta – stampa, opinione pubblica, avvocatura, polizia – ne sia degna. Ma soprattutto che ne sia degna la magistratura.
In due terzi dei casi oggi le vittime di violenza non vedono la fine del processo nei confronti dei loro persecutori. A volte addirittura il loro procedimento si perde nelle nebbie e non sanno più a che punto sia arrivato. Da oggi la donna sarà sempre informata del punto in cui è giunto il procedimento e potrà usufruire di una corsia preferenziale per rendere la sentenza più rapida.
Non sarebbe male una road map. Se, con le nuove regole, nel giro di un anno, le vittime che riuscissero a vedere la fine del loro processo diventassero almeno la metà, potremmo davvero congratularci con noi stessi.
La Stampa 09.08.13