Secondo la propaganda berlusconiana, la conferma della condanna da parte della Cassazione avrebbe provocato la caduta del governo Letta a causa delle inevitabili convulsioni del Pd. Ma pochi giorni sono bastati per smontare l’intero castello. I problemi maggiori sono in casa Pdl, anzi nella testa di Berlusconi. Che non potrà avere sconti nell’esecuzione della sentenza, né nella decadenza da senatore, così come non ha ottenuto salvacondotti per evitare la condanna definitiva. E dunque è anzitutto Berlusconi che non ha ancora deciso se far saltare il banco alla ripresa di settembre. Avevano detto – i grillini, ad esempio – che le larghe intese sarebbero servite per regalare l’immunità al Cavaliere. Invece l’esecutivo guidato da Letta può vivere solo ripristinando l’autonomia dei poteri e il rispetto della legalità.
Il governo non è merce di scambio per garantire la cosiddetta «agibilità politica» ad un Berlusconi condannato per reati comuni. Questo governo semmai può diventare un ponte verso un nuovo sistema politico, con una destra post-berlusconiana al posto dell’attuale partito-azienda. Al fondo, è questa la vera scelta per il Pdl: giocare tutta la posta in difesa del capo, fino a calpestare i principi dell’ordinamento e gli interessi del Paese, oppure avviare un percorso democratico interno, dando una successione a Berlusconi diversa da quella dinastica e contribuendo così a far uscire l’Italia dall’incubo della seconda Repubblica. Molti pensano che il Pdl non possa farcela, che Berlusconi non rinuncerà alla sua «proprietà», che al momento della decadenza da parlamentare (o un minuto prima) scatenerà un’opposizione di sistema, e non solo un’opposizione al governo.
Il destino di Letta è legato a questa scelta. Sbaglia chi pensa che Berlusconi non mollerà comunque la presa, perché le larghe intese sono il solo terreno negoziale rimastogli. Tante, troppe volte in questi due decenni ha ribaltato il tavolo, scommettendo più sulla propria forza «eversiva» che non sul negoziato. Berlusconi senza «agibilità» potrebbe tentare la scorciatoia elettorale per ottenere lo stesso risultato che vuole Grillo: cioè, che anche la prossima legislatura diventi ingovernabile e che il Pd – con o senza Renzi – fallisca di nuovo il suo progetto di cambiamento.
Va anche detto però che il destino del governo non dipende solo da Berlusconi. Il Pd non è uno spettatore passivo. Anzi, o sarà capace di incalzare il governo, di ottenere almeno alcuni dei risultati economici, sociali e istituzionali che si è proposto, oppure il governo Letta crollerà. Il punto non è portare il governo dalla parte del Pd più di quanto non sia oggi. Il punto è la missione dell’esecutivo. Il suo obiettivo nella crisi drammatica che stiamo vivendo. Una crisi – è bene ricordarlo – non solo sociale, ma anche democratica e di fiducia. Ebbene, il governo Letta non può diventare un governo di tregua o di decantazione. È nato senza una vera intesa politica, ma ha bisogno di una rotta e di una forte determinazione per attraversare la tempesta.
La prima emergenza è il lavoro. E le politiche di bilancio, come la politica europea, devono essere orientate a rilanciare i consumi, ad agganciare la ripresa, a ridurre le disuguaglianze mentre si cerca di dare maggiore competitività ai settori trainanti (compresi la scuola e la cultura, con i quali «si mangia»). Ma ci sono anche le riforme istituzionali da fare insieme alla nuova legge elettorale: perché senza un superamento del bicameralismo paritario e senza meccanismi come la sfiducia costruttiva (altro che presidenzialismo), non ci sarà riforma elettorale capace di assicurare di per sé la stabilità. Bisogna inoltre affrontare con energia ed equità i nodi fiscali: a partire dall’Imu. La proposta di bandiera del Pdl (cancellare l’Imu sulla prima casa anche ai più ricchi) ha un costo oggi non sostenibile e un carattere regressivo. Semplicemente: non può essere accolta. Se il governo lo facesse, si condannerebbe alla fine.
Il governo Letta deve invece rafforzare il proprio grado di autonomia. È anch’esso un valore costituzionale, che rimanda al principio della divisione dei poteri e riconduce i partiti negli spazi propri. Dei partiti la democrazia italiana ha bisogno. Di partiti rinnovati, ma non personali. Anche per questo la legge che abolisce il finanziamento pubblico (e non pone vincoli ai versamenti privati, anzi ne depenalizza gli abusi) è una pessima iniziativa del governo, incoerente con i propositi di ripristino della normalità costituzionale, anche se oggi viene venduta come un favore alla piazza.
L’orizzonte del governo Letta è la fine del 2014, cioè lo svolgimento del semestre di presidenza italiana dell’Ue. Nessuno può dire se ci arriverà davvero. In ogni caso, per raggiungere questa data, bisogna dare fin d’ora un’impronta di cambiamento. L’Imu, in realtà, è solo un primo passaggio (vedremo se il Pdl prenderà a pretesto l’inevitabile bocciatura della loro proposta per far saltare il banco). La prova più importante sarà la definizione delle linee di bilancio del 2014: dovrà esserci il segno di una rottura con le vecchie politiche di austerità. Non la richiesta a Bruxelles di un semplice sforamento del 3% nel rapporto decifit/Pil, ma scelte di investimenti selettivi su lavoro, impresa, ricerca, innovazione. Letta ha un vantaggio: un simile negoziato con l’Europa – così vitale per noi – può condurlo solo chi garantisce la stabilità politica. Nell’instabilità il negoziato è già perso. La stabilità, tuttavia, ha senso solo se porta vantaggi all’Italia e a chi in Italia paga oggi i costi più alti della crisi.
L’Unità 09.08.13