Sommersa dalle grida berlusconiane contro la magistratura, riaffiora dunque l’“altra emergenza”. Quella che morde la carne viva di famiglie e imprese, che incide sul futuro collettivo di un’intera nazione e conta molto di più del destino personale di un pregiudicato eccellente. Entro il 30 agosto il governo deve decidere se confermare l’eliminazione dell’Imu, o se rimodulare il prelievo sugli immobili. È una scelta fondamentale, che può decidere la vita del governo quanto una sentenza di condanna per il Cavaliere. A dispetto di un “pensiero debole” ricorrente e purtroppo dominante, incline ad annullare le distanze e ad azzerare le differenze, il Fisco è una frontiera che può dividere la sinistra dalla destra. Esattamente come la Giustizia, che esige tutti i cittadini uguali di fronte alla legge, anche il Fisco è uno strumento che aiuta a combattere le disuguaglianze.
La “cifra” politica dell’Imu è dunque elevatissima. E il documento diffuso dal ministro dell’Economia lo conferma plasticamente, e quasi drammaticamente. In un testo di oltre cento pagine, Saccomanni fotografa la realtà, e poi descrive i nove possibili scenari di cambiamento, che vanno dalla “totale abolizione” dell’imposta fino alla “derubricazione della revisione Imu sulla prima casa con destinazione di risorse per la parziale abolizione dell’imposta all’allentamento del patto di stabilità dei comuni e la service tax”. Per depotenziare la questione dalla sua alta intensità politica, sembra quasi che il governo ne voglia aumentare di proposito la densità “tecnica”. Ciascuna delle ipotesi esaminate viene valutata in base al costo per le casse dello Stato, all’efficienza, all’equità nell’impatto redistributivo, alla responsabilizzazione dei livelli di governo, al costo della “compliance” per i contribuenti e ai costi amministrativi.
Qui sta, allo stesso tempo, la forza e la debolezza del documento. La forza è nell’oggettività dei numeri che espone e che finalmente, dopo tante chiacchiere, definisce in modo esaustivo e definitivo la base tecnica e l’oggetto della “contesa” politica. La debolezza sta nella neutralità del testo, che si limita a squadernare doviziosamente le opzioni, senza privilegiarne esplicitamente una. Ma questo limite non deve stupire. È per così dire “strutturale”. Va al di là dell’Imu. È intrinseco alla natura anomala di questo governo di Larghe Intese. La difficoltà di scegliere tra una o l’altra misura di revisione del prelievo sugli immobili (come quella di decidere se rinviare definitivamente l’aumento dell’Iva, di stabilire se si debba riformare l’amministrazione giudiziaria o di accordarsi su come si possa cambiare la legge elettorale) riflette geometricamente la difficoltà di conciliare le diverse idee, e persino le diverse costituency elettorali, che dominano i due schieramenti.
Come spiega lo stesso Saccomanni, il confronto tra i partiti sull’Imu, cominciato dopo l’istituzione della cabina di regia e gli incontri bilaterali, ha fatto emergere distanze siderali tra Pd e Pdl. Per questo il ministro ha deciso di mettere tutti di fronte ai dati della realtà, descrivendo costi e benefici di tutte le scelte possibili che la politica, di qui alla fine del mese, sarà chiamata a fare. Può sembrare una mossa pilatesca. Ma lo è solo in parte. Basta leggere il dettaglio delle singole misure proposte, nel quadro sinottico di pagina 74 del testo, per rendersi conto che nella valutazione del governo le due opzioni peggiori, sul piano economico e sociale, sono quelle sostenute dal Pdl. L’abolizione totale dell’imposta sull’abitazione principale ha un costo in termini di gettito “alto” (4 miliardi), un’efficienza “scarsa, un “impatto regressivo rispetto al reddito”, una responsabilizzazione dei livelli di governo “scarsa”, un costo di “compliance” per i contribuenti “nullo” e un costo amministrativo “alto”. L’abolizione della prima rata dei versamenti Imu sospesi per decreto a maggio ha le stesse caratteristiche negative, con la sola differenza di un costo più basso in termini di gettito (2,43 miliardi).
È dunque improbabile che l’Imu sia
cancellata per sempre, come chiedono i liberisti alle vongole passati dalla scuola di Chicago al doposcuola di Arcore. Con un debito pubblico al 130,3% del Prodotto interno lordo, e nonostante un avanzo primario al 2,4%, l’Italia purtroppo non può permettersi di ridurre drasticamente le tasse, e meno che mai tornando ad allargare il suo deficit. Gli impegni assunti con l’Europa continuano a pesare, e se ne avrà una prima traccia già al G-20 di San Pietroburgo del 5-6 settembre, e poi all’Ecofin immediatamente successivo. Lo spread a quota 250 è una bella nota estiva, ma non può e non deve ingannare. Come ricorda la Bce di Mario Draghi, che invita i Paesi periferici dell’Eurozona a “non vanificare gli sforzi già compiuti allo scopo di ridurre i disavanzi pubblici”.
Se sarà confermato il parziale miglioramento del Pil del secondo trimestre (diminuito dello 0,2% invece del temuto 0,4%) e se l’andamento delle entrate del secondo semestre confermerà il trend di quelle del primo, l’eventuale extra-gettito da 8-10 miliardi dovrà essere impiegato per ridurre il cuneo fiscale, non certo per eliminare un’imposta sugli immobili che (sia pure graduata in modo diverso e magari in funzione della condizione economica del nucleo familiare) esiste in tutti i Paesi d’Europa. Chi ha case d’altissimo pregio e redditi molto elevati è giusto che paghi un tributo. Ne va dell’equità sociale del sistema che il governo tecnico di Monti ha colpevolmente ignorato e che invece il governo politico bipartisan non può assolutamente dimenticare. Ma questo, nei prossimi giorni e spurgata la prima ondata di polemiche, l’esecutivo dovrà dirlo chiaro, e scriverlo nero su bianco in un decreto legge. Per quanto completo e accurato, un documento non basta a salvarsi l’anima. Letta e Saccomanni dovranno assumersi le loro responsabilità di fronte alla maggioranza e di fronte agli italiani.
Le reazioni della destra sono già furenti, anche se inconcludenti. Prima, in campagna elettorale, il Pdl ha trasformato la soppressione della tassa sulla prima casa in un vessillo ideologico e demagogico, da agitare al cospetto di un elettorato disincantato e deluso, dopo l’ubriacatura bugiarda degli anni 2000, quando Berlusconi sbancava le urne promettendo “meno tasse per tutti”. Poi, dopo il voto, l’ha trasformata nell’atto “fondativo” della Grande Coalizione, giudicandola indiscutibile e irrinunciabile per recuperare terreno nelle categorie più abbienti, dove l’emorragia elettorale è stata più copiosa. Per le tasse come per le condanne del Cavaliere, il partito berlusconiano, disperato e disarticolato, continua dunque a far crescere le tensioni, anche se non riesce a farle esplodere. Di qui al 30 agosto sentiremo ripetere fino alla noia “o salta l’Imu, o salta Letta”. Per ora non saltano né l’uno né l’altro. Ma resistere a questo logoramento continuo, e a questo stillicidio quotidiano di penultimaum, è sempre più difficile. Anche per un governo che non ha alternative. Non basta una necessità per fare una virtù.
La Repubblica 09.08.13