La sentenza andrà eseguita. Anche il Pdl inizia a comprendere che non esistono immunità capaci di garantire una «agibilità politica» al Cavaliere. La risposta politica di Berlusconi è la candidatura della figlia Marina. Intanto Napolitano chiede che non ci siano intrusioni nella sfera del presidente.
Il tormentone dell’estate è già coniato: garantire l’«agibilità politica» di Silvio Berlusconi. Espressione pudica con cui si tenta di veicolare l’estrema delle forzature: lasciare libertà personale e diritto di elettorato passivo a un leader politico condannato in via definitiva, del quale la camera di competenza (il Senato) sta per sancire la decadenza da parlamentare, e che a prescindere dall’interdizione dai pubblici uffici (comminata come pena accessoria del- la condanna a 4 anni e che la Corte d’Appello ricalcolerà nei prossimi mesi) è già incandidabile in base alla legge Severino-Monti.
Già: come garantirne l’agibilità politica allora? La risposta è: in nessun modo. E il Pdl lo sa. Al punto che, al di là dei proclami di falchi e pitonesse, in trentasei ore tutto è rientrato nei ranghi: il Cavaliere, come sempre al momento di prendere decisioni operative, non ha ancora staccato la spina al governo; i ministri non erano alla (semideserta) manifestazione in via del Plebiscito; l’incontro con il presidente della Repubblica si è chiuso con un nulla di fatto. Si valuterà, non esistono «posizioni prede- finite», bisogna evitare «intrusioni». Insomma: state tranquilli, se non rassegnatevi. Con buona pace dei fulmini di Brunetta sulla «democrazia da ripristinare» perché «se ci dicono no, la difenderemo noi». Gli avvocati studiano le carte, i pasdaran promettono battaglia, i peones si disperano: «È finita. In Parlamento non tornerà più. Come finirà questa storia?»
Il punto è che la strada principale è quella di una condanna di terzo grado, con tutto ciò che ne consegue. Mentre le strade secondarie sono tutte – per un motivo o per un altro – altamente impervie. La grazia, ormai, è fuori dal tavolo. Lo stesso capo dello Stato lo ha premesso ai capigruppo azzurri saliti al Colle, dopo aver bollato con parole durissime come «sguaiatezza e analfabetismo istituzionale» le speranze di Maurizio Bel- pietro su “Libero”. Possibile sul piano strettamente giuridico, non lo è in questo caso: troppo recente la sentenza, con in più altri giudizi pendenti; troppo smaccata la somiglianza con un inaccettabile quarto grado di giudizio; palesemente inesistenti «eccezionali ragioni umanitarie». Per non parlare del com- portamento tenuto dal condannato: schiantatasi la linea Coppi che aveva imbrigliato Silvio nel «modello Andreotti», nel video-messaggio a botta calda il Cavaliere ha attaccato la magistratura «fuori controllo» e minacciato le urne. Non proprio il viatico migliore per pro- seguire nella finzione della «pacificazione nazionale». Sia pure intesa come un uomo solo legibus solutus.
Altrettanto complicato lo scenario di una soluzione non istituzionale ma parlamentare. Come l’amnistia. Che toglierebbe il problema dalle mani del Quirinale, ma incontrerebbe le resistenze di quasi tutto il Parlamento, dal Pd a Sel al M5S. Nell’entourage berlusconiano c’è chi spera nella proposta di legge Manconi, per reati fino a quattro anni di pena. Ma è la cruda legge dei numeri a renderlo impossibile: la richiesta maggioranza dei due terzi. Quanto alla vagheggiata riforma della giustizia, non ci sono i tempi, né tantomeno il clima per mettere mano a una materia incandescente. Insomma, un vicolo cieco.
Neppure le altre ipotesi presentate dal Pdl sono realistiche. È caduta nel vuoto, bocciata dai maggiori costituzionalisti, la suggestione dell’inapplicabilità della Legge Severino perché non esisteva quando è stato commesso il fatto. Il principio dell’irretroattività non si applica perché essa non è una norma penale in senso stretto.Idem per il «lodo Sallusti», rilanciato dal “Giornale”, che punterebbe alla commutazione della pena sull’esempio di quanto avvenuto per il direttore del quotidiano: condannato a un anno e due mesi per diffamazione, ha ricevuto una moderata pena pecuniaria. Già, ma una cosa è la diffamazione, reato per il quale molti ritengono sproporzionato il carcere, altro è la frode fiscale, reato ritenuto unanime- mente odioso. Piuttosto, l’esempio di Sallusti potrebbe fare scuola in senso opposto ai desiderata del Cavaliere: pur evaso dai domiciliari, il giornalista si è visto respinta l’istanza dei legali per andare in carcere con l’argomentazione che «organizzare l’efficienza delle carceri opera indipendentemente da una specifica istanza di parte». Insomma, altro che gesti eclatanti come rifiutare i servizi sociali e finire in cella. «Perché abbassare la tensione dicendo che sta tanto bene nella sua villa meravigliosa?» si è chiesta previdente la Santanché. Ebbene, il destino potrebbe essere proprio quello: un anno tra Arcore, Grazioli (c’è la richiesta di trasferimento della residenza a Roma) e Villa Certosa. In attesa che il processo Ruby e quello per la compravendita dei senatori facciano il loro corso. Alla fine del quale, se non cambiano le pene, si affaccia davvero il carcere. Ma quella sarà, eventualmente, un’altra storia.
L’Unità 07.08.13