Enrico Letta celebra i primi cento giorni del suo governo documentando gli sforzi per far riprendere il Paese. Sforzi fatti, anche sulla scia del governo precedente, in una situazione politica difficilissima e in un quadro economico internazionale ancora debole. Giustamente il premier chiede fiducia e perseveranza per continuarli.
Si diffonde l’idea che la congiuntura economica italiana stia smettendo di peggiorare. Un’idea supportata da dati aggregati e ufficiali, come l’andamento della produzione industriale, il cui lieve miglioramento, già avvertito da qualche settimana, è stato ora ufficializzato dall’Istat. Da tempo Saccomanni, che ieri ha detto di pensare che «la recessione sia finita», raccomanda di non sottovalutare l’effetto positivo dell’accelerazione dei pagamenti arretrati della Pubblica amministrazione.
Miglioramenti risultano anche da evidenze meno ufficiali. Vanno bene numerose imprese, soprattutto nei settori dell’export di qualità, che stanno reagendo alle difficoltà degli ultimi anni con innovazione, ricerca, nuovo marketing, migliori relazioni con le organizzazioni sindacali.
Con grande travaglio e attorno al triste serbatoio della disoccupazione, cambiano le imprese, la gente cambia mestieri, si adatta ai cambiamenti del mondo. Anche le banche, pur mediamente bloccate, dalle sofferenze dei loro prestiti passati, nell’erogazione di nuovi crediti alle imprese, vanno differenziandosi: le migliori cominciano a respirare e a far respirare la loro clientela.
Siamo «a un passo dal possibile» ha detto Letta. Ma per il passo che manca – e perché non si torni indietro – servono condizioni, esterne e interne al nostro Paese. La crescita di alcune delle locomotive globali non deve rivelarsi un bluff prodotto da stimoli monetari e fiscali artificiali e pericolosi. L’Europa deve proseguire verso la maggiore integrazione che ha avviato negli ultimi due anni: è la condizione per mostrare a un Paese come il nostro, che cerca di ricostruire la sua politica e rianimare la sua economia, che i suoi travagliati sforzi lo portano verso una meta comunitaria dove saremo tutti più forti e solidali. Il disegno di un’Europa più unita è avanzato; la sua realizzazione deve proseguire; il semestre di presidenza italiana dell’Ue dell’anno prossimo sarà cruciale.
Quanto alle condizioni interne, alcune sono urgentissime e dovrebbero accavallarsi subito ai piccoli miglioramenti statistici che stiamo osservando. Va risolto definitivamente, meglio se prima delle scadenze obbligatorie, il nodo delle imposte in sospeso: l’Imu e l’Iva. Famiglie e imprese non devono continuare a pagare i costi dell’incertezza su che cosa si deciderà. Anche perché è un’incertezza che si diffonde all’insieme delle decisioni fiscali e di bilancio che vengono comunque coinvolte dai non pochi miliardi in ballo per quelle imposte.
C’è un’eccezionale convergenza di vedute, dal Fmi, all’Ocse, alla Commissione Europea, alle banche centrali, alla Confindustria e ai sindacati: la tassazione sulla prima casa non va eliminata. L’Imu si può riformare, alleggerire per i più poveri, si può cambiarle il nome e ricomporla con altre imposte, ma le promesse di chi ha basato sulla sua abolizione la campagna elettorale non possono essere mantenute. Il premier deve ora dirlo chiaro e sfidare anche su questo la sua maggioranza. Sull’Iva il consenso è meno compatto; ma sono fra i molti che pensano che l’aumento che scatterebbe automaticamente in assenza di altre decisioni vada accettato, con eventuali rimodulazioni delle aliquote agevolate, e che tutta la detassazione possibile vada concentrata per ridurre il cuneo fra salari e costi del lavoro e le aliquote dell’imposta sui redditi personali di chi guadagna meno.
Al di là dei provvedimenti specifici come il riassetto più urgente delle imposte, condizione interna cruciale per confermare la ripresa è convincerci che più che stimoli macroeconomici servono profonde riforme microeconomiche e amministrative. Le quali, è vero, richiedono tempo, ma il cui solo annuncio e disegno credibile, impegnativo e condiviso, concordato con le apposite procedure in sede Ue, farà subito effetto, perché agirà sulle aspettative, permetterà a famiglie e imprese di fare i piani di medio-lungo, rilancerà gli investimenti e l’afflusso di capitali dall’estero. Le riforme sono la chiave per risolvere la contraddizione fra austerità e crescita.
L’elenco è ben noto e in parte già steso in più sedi: riforma del lavoro, della giustizia, delle banche, del decentramento politico-amministrativo, eccetera. Ma è indispensabile che si diffonda maggiormente, fra tutti i cittadini, la consapevolezza che il Paese va cambiato profondamente, che ciascuno deve dare il suo apporto e che la direzione della maggior parte dei cambiamenti necessari non è un fatto ideologico e di parte ma risulta dalla somma del buon senso con la convinzione che l’interesse collettivo deve prevalere su quelli dei singoli e dei gruppi di pressione. E’ indubbio che nel settore privato le imprese e le persone stanno impegnandosi a cambiare. E’ persino questione di giustizia che il cambiamento pervada in modo rapido e radicale anche tutta la pubblica amministrazione.
Cartine di tornasole del cambiamento, a caso, che a qualcuno sembreranno futili: ci serve un Paese dove nel giro di 24 ore qualcuno possa decidere senza appello che le grandi navi non possono avvicinarsi a Piazza San Marco; che i soldi che ancora spendiamo per il Ponte di Messina vadano a Pompei; che il sussidio che mia madre, senza averne bisogno, riceve per la badante, vada a integrare lo stipendio dei giovani medici; che il sottosegretario alla cultura possa, con un ordine di servizio immediato, spostare due uscieri dalla sua anticamera, dove hanno poco da fare, al vicino museo di Palazzo Venezia, dove manca personale. Cose come queste aiuteranno i dati dell’Istat a migliorare davvero e durevolmente.
La Stampa 07.08.13