Scaricare tensioni sulle istituzioni è pericoloso. Bisogna evitarlo, nell’interesse del Paese. «Quale furia di genti straniere, quale ferocia dei barbari può essere paragonata a questa vittoria di cittadini su altri
cittadini»? Così, ne La Città di Dio, scriveva Sant’Agostino, riflettendo sulle guerre civili che avevano insanguinato a lungo Roma. E non lo scriveva a caso. Già i classici più antichi avevano posto la guerra civile tra i mali peggiori che possano affliggere una comunità politica, e più avanti l’avrebbero pensata nello stesso modo i fondatori del pensiero politico moderno.
Quando si evoca la guerra civile, dunque, si tocca un oggetto esplosivo, da maneggiare con cura. Questa cura non la mostrano tutti: lo spauracchio della guerra civile, anzi, è agitato sempre più frequentemente e senza la minima riflessione sulla storia dei concetti e sul significato profondo delle parole che si usano.
Sarebbe sciocco affettare un’ingenua sorpresa o uno scandalizzato sdegno. In politica la tattica ha una sua importanza, sempre più evidente in periodi di accelerazione dei tempi di formazione dell’opinione pubblica, sicché l’uso tattico e ad effetto di immagini forti o i toni gridati della polemica si possono anche capire. Quel che non si potrebbe capire, tuttavia, è che questi eccessi verbali venissero presi così sul serio da costruirci sopra una strategia, di azione o di risposta. Ma veniamo al punto. Il leader del Pdl ha subìto una condanna penale. Definitiva e pesante. È ovvio che questo ponga un serio problema politico, non solo dentro quel partito, ma anche all’interno di tutti i suoi interlocutori. Ora, c’è chi dice che quel problema lo si dovrebbe risolvere subito, altrimenti non solo salterebbero tutti gli attuali equilibri di governo, ma ne andrebbe di mezzo la stessa tenuta della convivenza civile. Questa soluzione immediata, però, non si capisce bene quale dovrebbe essere. Qualcuno dice che si dovrebbe imporre un pesante intervento sul sistema della giustizia o che si dovrebbe esigere dal capo dello Stato la concessione della grazia. Ipotesi davvero bizzarre.
Che la giustizia abbia bisogno di incisivi interventi di riforma è noto ed è altrettanto noto che tutti, magistrati compresi, sono d’accordo. Quel che proprio non si può accettare, però, è una riforma-sanzione, un intervento concepito per rimediare ad una pretesa violazione dei limiti dell’azione giurisdizionale. Quanto alla grazia, il solo fatto di adombrare l’idea che il Presidente debba concederla solo perché –
altrimenti – il Paese andrebbe a rotoli significa cercare di precipitare il capo dello Stato nella polemica politica immediata: l’ultima cosa della quale abbiamo bisogno. La condanna non ha certo determinato la fine politica del leader del Pdl, ma ha posto un problema parimenti politico. Che sempre la politica deve risolvere, senza scorciatoie istituzionali.
La sostanza di quel che sta accadendo, in realtà, è abbastanza chiara. I partiti sono in seria difficoltà e scaricano il loro disagio sulle istituzioni, destabilizzandole o cercando di farlo. Non c’è da meravigliarsene, visto che il sistema dei partiti – ovviamente – incide sul funzionamento del sistema delle istituzioni. Sta di fatto, però, che questo ha un suo grado di autonomia e che, per quanto è possibile, si deve tenerlo al riparo dalle fibrillazioni del primo. Proprio nell’interesse del Paese.
da L’Unità