Qualche settimana fa, già in vista della sentenza che la Cassazione ha emesso giovedì scorso, il direttore di questo giornale, Ezio Mauro, aveva usato la parola “dismisura” per definire l’influsso improprio che Silvio Berlusconi ha esercitato per vent’anni sulla fragile democrazia di questo paese.
La parola dismisura mi colpì molto per la sua efficace rappresentatività. Un uomo posseduto da un’egolatria straripante, con capacità di imbonire non solo una parte rilevante di popolo ma addirittura di deformare il funzionamento di istituzioni da tempo asservite ai partiti politici dominanti, guidava il paese con una ricchezza di assai dubbia provenienza, un impero mediatico di proporzioni inusitate, una spregiudicatezza politica senza limiti.
Del resto l’allarme di Repubblica nei confronti di quel personaggio così anomalo ad ogni principio democratico era scattato da tempo, quando Silvio Berlusconi non aveva ancora fatto il suo ingresso in politica ma già aveva con i politici contatti e rapporti di complicità e addirittura di compravendita. La nostra campagna era cominciata fin dagli ultimi anni Ottanta ed è del ’92 l’articolo da me pubblicato con il titolo “Mackie Messer ha un coltello ma vedere non lo fa” in cui il padrone della televisione commerciale italiana era paragonato al gangster protagonista dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht. Mackie Messer è stato finalmente condannato con sentenza definitiva in uno dei tanti processi intentati da 19 anni nei suoi confronti.
Non già per sentimenti persecutori della magistratura inquirente e giudicante, ma per la quantità di reati da lui commessi e da lui abilmente ostacolati, rallentati, bloccati, muovendo le leve politiche delle quali disponeva, rallentandoli con l’uso e l’abuso del legittimo impedimento, con l’accorciamento mirato della prescrizione, con l’immunità delle cariche da lui rivestite e addirittura con la corruzione di magistrati e giudici.
Inusitatamente – è il caso di dirlo – il processo sui diritti cinematografici di Mediaset è riuscito a farsi largo in questa selva di ostacoli e arrivare con poche settimane di anticipo sull’imminente prescrizione, alla sentenza definitiva. Ora l’imputato è un condannato ad una pena carceraria e ad una pena accessoria d’interdizione dai pubblici uffici. Nel frattempo altri processi incalzano per reati altrettanto gravi e forse più, presso i Tribunali e le Corti di Milano, Roma, Napoli, Bari.
Gli uomini del partito da lui fondato, e del quale è il leader e il proprietario nel senso tecnico del termine, lo sanno. I suoi elettori in parte l’hanno capito e l’hanno abbandonato, in parte sono ancora dominati dalla sua demagogia o da interessi da lui concessi e tutelati.
Su questa massa consistente di ministri del governo in carica, di parlamentari, di elettori ancora imboniti, Mackie Messer ha lanciato la sua campagna e vorrebbe annullare la sentenza con il ricatto di far saltare il governo e provocare lo sfascio d’una economia già fortemente in crisi.
Mackie Messer questa volta il coltello non solo non lo nasconde ma lo mostra apertamente agitandolo minacciosamente dalle sue televisioni ed anche dagli schermi della Rai che, non si capisce il perché, danno ripetutamente a reti unificate la parola di un pregiudicato e condannato per gravi reati comuni. Non accadrebbe in nessun altro paese anche perché l’uomo politico – in democrazie notevolmente più mature della nostra – si sarebbe da tempo dimesso dalle cariche ricoperte affrontando i processi e subendone le eventuali conseguenze.
Fatta questa premessa, che ricorda fatti peraltro ben noti ai nostri lettori, ma che è bene comunque ricordare per completezza d’informazione, parliamo ora del tema principale che oggi domina lo scenario politico ma non solo: oltre che politico anche economico, anche sociale, anche internazionale e infine
istituzionale.
Non allarmatevi dei tanti aspetti di questa situazione: sono fortemente intrecciati tra loro e costituiscono un unico nodo ed è quel nodo che in un modo o nell’altro va sciolto nei prossimi giorni, anzi direi nelle prossime ore.
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I sudditi (come altro chiamarli?) del condannato hanno inscenato una farsa da lui guidata, si sono dimessi nelle sue mani da ministri e da parlamentari e una loro deputazione vorrebbe incontrare Napolitano per ottenere la grazia per il loro padrone e signore. È probabile che Napolitano non li riceva ma è comunque certo che la grazia non la darà poiché non ne ricorrono gli estremi né morali né tecnici.
La minaccia, anzi il ricatto, è di mettere in crisi il governo e andare a votare in ottobre, ma Napolitano ha già più volte chiarito che non si parla di scioglimento anticipato delle Camere con questa legge elettorale palesemente incostituzionale. Bisogna dunque riformarla e il governo ha già fissato la data di discussione dei vari progetti allo studio il prossimo ottobre. Ammesso e non concesso che la si approvi entro ottobre, c’è nel frattempo l’obbligo di discutere e approvare la legge di stabilità finanziaria e il bilancio e si arriva così alla fine dell’anno. Qualora a quel punto Napolitano sciogliesse le Camere, si voterebbe alla fine di febbraio o a marzo ma nel frattempo – sempre che i sudditi del signore e padrone avessero dato le dimissioni – il governo sarebbe ancora in carica per l’ordinaria amministrazione. Quindi privo di qualunque autorevolezza anche in Europa, anzi soprattutto in Europa.
Non è da escludere che il signore e padrone di Arcore, divenuto a quel punto la sua comoda prigione dalla quale però non può incontrare nessuno se non i propri figli, abbia fermato le dimissioni e gli Aventini minacciati e così pure le elezioni anticipate. Ma non è soprattutto da escludere che Napolitano abbia accettato le dimissioni di Letta ed abbia nominato un “Letta bis” impostato sul Pd che ha la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato che diventerebbe assoluta con il voto di Scelta civica, Vendola e dei 5 Stelle, che probabilmente a quel punto arriverebbero.
Questi sono i vari scenari, l’ultimo dei quali è, a mio avviso, il più auspicabile perché significa che il governo Letta prosegue fino al semestre europeo di presidenza italiana con l’uscita di scena nel gennaio 2015.
Questo richiede lo “scopo” per il quale Letta fu insediato a Palazzo Chigi. Lo scopo è di combattere la recessione in Italia e avviare una politica europea basata sulla crescita e sull’Europa proiettata verso uno Stato federale.
Queste considerazioni sono presenti esplicitamente nelle dichiarazioni non solo di Letta ma anche del segretario del Pd Guglielmo Epifani e del presidente del gruppo del Senato del Pd Luigi Zanda nell’intervista pubblicata ieri su questo giornale.
L’impegno del Pd nel sostenere questo progetto è fondamentale e coincide con le finalità di un partito riformatore di sinistra democratica. Poi – a suo tempo – bisognerà votare per un nuovo Capo dello Stato quando Napolitano deciderà scaduto il suo tempo. Quest’uomo, tra i tanti pregi e qualità che ha mostrato nel suo pluri-mandato presidenziale, ha dato prova di una fermezza di carattere molto rara e di una visione istituzionale, già anticipata a suo tempo da Carlo Azeglio Ciampi, inconsueta in questo paese di fragile democrazia: il governo è un’istituzione, titolare del potere esecutivo. I partiti possono fornirgli alcuni loro uomini che però, una volta nominati, cessano di essere uomini di partito e diventano membri d’un potere costituzionale dello Stato di diritto.
Nel nostro paese questi principi vengono spesso dimenticati. Voglio qui ricordare che furono sostenuti a spada tratta da Bruno Visentini, Ugo La Malfa, Enrico Berlinguer, Aldo Moro e da questo giornale. I partiti servono a raccogliere il consenso, non ad occupare le istituzioni, governo e Parlamento compresi. Chi dimentica che la democrazia ha come fondamento la separazione dei poteri compie un grave errore e rischia di procurare danni al paese e ai cittadini, che non sono più soltanto italiani ma anche, e speriamo sempre di più, europei.
da La Repubblica