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“Tante procedure poca sinistra”, di Michele Prospero

Per capire come debole e smarrita sia diventata la politica occorre riflettere sulla fuga dal principio di realtà che coinvolge un po’ tutte le culture esistenti. Un intreccio di emergenze impone come centrali nella sfera pubblica questioni procedurali che, enfatizzate da schieramenti agguerriti e pompati dai media, determinano un completo appannamento della società e delle sue contraddizioni.
Di legittimità processuale si dibatte al Palazzaccio, con telecamere di mezzo mondo fuori dall’aula pronte a captare qualche indiscrezione sulle sorti penali del principale capo politico della seconda Repubblica. Attorno a regole congressuali si lacera da tempo il Pd, ancora alla ricerca di una identità e per questo aggrappato ai gazebo come alla sua unica ragione vitale. E ad una battaglia all’ultimo sangue contro le modiche alterazioni dell’articolo 138 si dedica un radicalismo giustizialista che minaccia fuoco e fiamme contro i costituzionalisti traditori.
E la società? E le classi e il loro rapporto sempre più segnato dalle incolmabili diseguaglianze di status e di potere che fine fanno in questa totale epifania delle regole, delle procedure, delle tecniche? La tendenza alla fuga della politica dalla società e dai suoi contrasti durevoli è un fenomeno generale che si afferma dopo la sconfitta del mondo del lavoro, maturata negli anni Ottanta. Lo storico francese Pierre Rosanvallon ha parlato al riguardo di fine della «democrazia dell’equilibrio» (cioè del compromesso tra le classi siglato nella cornice di ampi diritti sociali di cittadinanza conquistati dai partiti provvisti di grandi sistemi di identificazione) e di avvento di una «democrazia di imputazione» che pone una attenzione pressoché esclusiva e maniacale sulla vicenda privata e sulla fedina penale del politico.
Il primato della cosiddetta questione morale (con la centralità dei palazzi di giustizia osannati come luoghi della salvi- fica resa dei conti con il nemico) ha radice in questa metamorfosi del conflitto sociale e identitario che perde ogni intensità programmatica e si converte in una banale disputa con al suo centro la personalità del singolo candidato. Dai partiti storici che si affrontano con identità opposte, con radici sociali differenziate, si passa a cartelli elettorali provvisori che investono tutto in un leader che con l’affabulazione e i ritrovati del marketing si rivolge a un pubblico pigro, conquistato con immagini, messaggi, narrazioni, semplificazioni banali.
Proprio questo svuotamento della politica, ottenuto con la venerazione di quelli che Norberto Bobbio chiamava gli «uni- versali procedurali» della democrazia, è la forma della totale rivincita di una classe economica privilegiata. Con la desocializazione della contesa politica, essa riesce a domare quella furia del numero che nel corso del Novecento l’aveva piegata e costretta a subire una caduta tendenziale del saggio di profitto, indispensabile per finanziare i diritti, le politiche pubbliche, la mobilità sociale dei ceti periferici.
La politica che si concentra nell’universo asettico delle procedure, e lascia incustodita la società reale con le sue angosce e regressioni, non è una operazione neutra. È invece lo strumento specifico per cercare il recupero di spazi di dominio da parte delle sentinelle sempre più egemoni del capitale. Per piegare le ultime resistenze alla dittatura dell’economico e imporsi sulla gracile rappresentanza politica, i signori dei media e del denaro (per i quali le costituzioni del Novecento sono un costo sempre più insopportabile, Mar- chionne insegna) inventano anche la no- zione di «casta» e così si sbazzano più agevolmente di una possibile potenza sociale eccentrica (i partiti) rispetto ai calco- li avidi del capitale.
Questa democrazia sfiancata, che san- tifica le procedure e alimenta una rumorosa opinione pubblica assillata dalle fedine penali dei deputati, è però vulnerabile. Le diseguaglianze sociali, le esclusioni, le precarietà, la riduzione in povertà del lavoro, colpiscono ai fianchi del sistema politico e lo rendono assai fragile. Sul loro cammino i lavoratori però non trovano più, come un tempo, la vecchia talpa che dà un senso alla lotta per i diritti e organizza l’autonomia politica dei ceti subalterni. E per questa drammatica assenza, proprio gli operai, i ceti popolari, i soggetti marginali sono i primi a votare per le destre populiste o a lasciarsi sedurre dai capitalisti incantatori. È normale.
Se manca una sinistra con una identità ridefinita ma pur sempre visibile, con una consapevolezza storica della propria funzione, con una diagnosi approfondita della postmoderna questione sociale, il di- sagio, il risentimento, l’anomia, l’indifferenza prendono la strada ingannevole della mobilitazione populista contro culture e religioni altre, della rivolta di molti- tudini senza progetto che bruciano i cassonetti nelle metropoli. Ricostruire un nesso tra sinistra e società, tra politica e conflitto, questo è il nodo irrisolto (e non solo in Italia).
Basta allora a perdere ancora tempo sulle regole dei congressi, sui risvolti processuali della vicenda del Caimano, sull’accorciamento da tre a un solo mese dei tempi previsti per la seconda lettura di una legge di riforma costituzionale. Parliamo invece delle classi che non sono affatto estinte, del lavoro alienato e sfruttato, della perdita per intere generazioni di ogni progetto di vita, della casa, dello studio, della ricerca.
La sinistra non può essere una procedura e una semplice questione morale che si scalda sulle fatidiche dieci domande su Noemi. È invece un movimento reale di liberazione che conquista spazi nuovi di libertà dal bisogno e orizzonti di senso, profili di dignità del soggetto solo nella lotta contro le potenze del capitale che privatizzano lo Stato e desocializzano la società.
L’Unità 01.08.13