La più piccola si chiamava Angela Fresu, aveva tre anni. Era alla stazione con sua madre Maria, di 24. Erano appena arrivate da Gricciano di Montespertoli, in Toscana. E a Gricciano erano immigrate dalla Sardegna. Maria, che essendo giovanissima viveva ancora insieme ai sette fratelli, quel giorno aveva deciso di andare sul lago di Garda, con la bambina e con l’amica Verdiana Bivona, anche lei immigrata, ma dalla Sicilia. La breve vacanza di acqua dolce doveva essere, per quest’ultima, una piccola parentesi aperta tra lavoro e cura dei genitori, anziani e malati. Dopo l’esplosione, di Angela e Maria non si trovò più traccia. Non si salvò nemmeno Verdiana. Sopravvisse solo una terza amica, Silvana Ancillotti.
Non molto distanti da loro c’erano Antonella Ceci, 19 anni, e il fidanzato Leo Luca Marino. Le sorelle di lui, Angela e Mimma, li avevano raggiunti alla stazione di Bologna. Erano tutti originari di Altofonte, paese del Palermitano. A Bologna ci sarebbe stato il pri- mo incontro con Antonella, quasi una presentazione ufficiale, in vista di un matrimonio ormai giudicato imminente. Invece ci furono un’esplosione e quattro funerali. Vito Diomede Fresa, 62 anni, patologo noto per le sue ricerche sul cancro, era in viaggio con la moglie Errica Frigerio, un’insegnate, e il figlio Francesco Cesare, di soli 14 anni. Racconta la giornalista e scrittrice Antonella Beccaria nel libro “È come il sangue e non va via. Due agosto: la strage, le vittime, la memoria”, (collana i Giovani siciliani, diretta da Riccardo Orioles, scaricabile gratuitamente da Internet), che Francesco si era seduto su un seggiolino, nella sala d’aspetto di seconda classe, e stava leggendo un fumetto. Lo scoppio travolse tutta la famiglia. Sul primo binario, c’erano anche i Mauri, ancora trafelati, perché temevano di perdere il treno. Carlo, il padre, era un perito meccanico di trentadue anni, e si era messo in viaggio verso Brindisi con la moglie Anna Maria Bosio, maestra, e il figlio Luca, sei anni. Erano partiti da Como ma la loro auto si era piantata a Bologna: avevano trascorso la notte sui sedili, poi, sentito un meccanico, avevano deciso di proseguire in treno per raggiungere il resto della famiglia. La corsa verso la stazione, il sollievo dopo l’affanno: il treno non era ancora partito. Poi il fuoco e il buio. Sono anche loro tra le ottantacinque persone che il 2 agosto dell’80 varcarono l’ingresso liberty della stazione di Bologna, senza sapere che non ne sarebbero più uscite. Vite che il fato ha mescolato, come fossero carte da gioco. Destini uniti da un’elucubrazione eversiva che – così dicono le sentenze – imponeva a chi la condividesse di spargere sangue e seminare il terrore per scuotere il quadro politico e spostarlo un po’ più a destra. Costasse quel che costasse. Il prezzo, spesso dimenticato, sono i nomi che avete appena letto, e molti altri. Storie spezzate, parole mai pronunciate, amori finiti, bambini mai diventati adulti Ottantacinque strade verso il futuro sbarrate da una ventina di chili di tritolo. Domani, nel trentesimo anniversario della strage alla stazione di Bologna, quei nomi non rimarranno solo sulla lapide che li ricorda, di fianco allo squarcio nel muro della sala d’aspetto. Grazie a un’idea di Mattia Fontanelli e Riccardo Lenzi, finiranno idealmente sulle targhe delle vie citta- dine, costituendo idealmente uno stra- dario della memoria che il sindaco Vir- ginio Merola propone di rendere in par- te definitivo. È una piccola rivoluzione della toponomastica, ma un capovolgi- mento copernicano nel punto di vista sul nostro passato. È forse la prima vol- ta che si finisce su una targa stradale non perché si è fatta la storia, ma la si è subita. Non uno scrittore, un eroe parti- giano, uno statista o uno scienziato. Ma una vittima, i cui parenti attendono una verità più completa sulle ragioni che l’hanno privata della vita. Un immi- grato, una giovane madre, un medico capace ma sconosciuto fuori della cer- chia dei colleghi e dei suoi pazienti, una coppia di turisti inglesi, una fami- glia di tedeschi decimata sotto la pensi- lina del primo binario. Siamo abituati alle targhe che ricordano i grandi ecci-
di. Vie Marzabotto, piazze Fosse Ardea- tine, giardinetti che ricordano le Foibe e gli altri mille luoghi calpestasti dal Se- colo Breve non ci sorprendono più. Cer- to ci sono le strade intitolate ai martiri, ma questi sono uomini e donne che. ri- spetto alle vittime di una strage, in qualche modo, in qualche misura, sono andati incontro al destino guardando- lo in faccia. Una cosa è leggere, all’an- golo di una strada, il nome di un con- dottiero. Un’altra sarebbe leggere quel- lo di un soldato mandato allo sbaraglio dal generale di turno. In questo caso, la storia ufficiale, quella dei bollettini, do- vrebbe farsi parte e lasciare il posto a quella, sconosciuta, di una persona qualunque. Il passante potrebbe girare lo sguardo e continuare per la sua stra- da. Oppure chiedersi chi e perché sia stato sacrificato; quale filosofia deviata abbia ispirato la mattanza. Una strage è un evento creato anche per essere in- comprensibile. Capire è la prima condi- zione per non dimenticare. E non di- menticare – ormai è diventato quasi un luogo comune. ma giova ripeterlo – è la prima condizione per impedire che un pessimo capitolo della nostra storia possa ripetersi. Forse anche la topono- mastica può essere d’aiuto.