Assisto a questo inizio di discussione congressuale del Pd con molte perplessità. Dove si vuole andare? Come si vuole dirigere questo Paese? Non ho mai sentito così acutamente il bisogno di una forza organizzata capace di esprimere un punto di vista autonomo, realistico ma non subalterno, sulla realtà: sul dove va l’Italia. Ripeto autonomo, e quindi anche diverso da quello – come dire? – dei «padroni». Questa parola dimenticata, quasi impronunciabile. I padroni. La impressionante plutocrazia che ci governa (non si erano mai visti dirigenti come Marchionne o Montezemolo, per non fare tanti altri nomi, riscuotere stipendi superiori di tre o quattrocento volte il salario medio) ma soprattutto i padroni dell’altro potere, anch’esso senza precedenti, che consiste nel produrre ed imporre le idee dominanti. Banalità? Mi scuso, ma io le dico perché sento che è giunto il momento di difendere, come leva di tutto, quella cosa che io chiamo la «sinistra», cioè quella cosa che non è una campagna di stampa e nemmeno un semplice movimento di opinione ma un impasto di idee, di passione e di storia, e che non è separabile dalla vicenda della «democrazia difficile» italiana, per dirla con le parole di Aldo Moro. E ciò – attenzione – non per nostalgia del passato, ma perché sento che siamo arrivati di nuovo ad un appuntamento con questa difficile storia.
Ecco. Questo mi sembra dopotutto il tema vero del congresso. È il ruolo (la scelta del segretario sarà la conseguenza) che al Pd tocca svolgere – ci piaccia o no – in questo passaggio così pericoloso per tutti gli italiani. Basta quindi con questo falso scontro sulle regole. Evidente che abbiamo bisogno di un leader, e che sia il più forte possibile; evidente che non si può chiedere solo il voto dei nostri iscritti; evidente che nei circoli si deve parlare di tutto, anche di dove va il mondo. Ma è altrettanto evidente che il leader (chiunque sia) fallirà se non porrà se stesso e il suo partito di fronte al compito e all’impegno di lotta che le cose ci impongono. Chiaro e forte. Non possiamo continuare a scusarci e a vergognarci perché teniamo in piedi un governo invece di fare l’opposizione. La gente non può capire se il nostro discorso è confuso e resta al di qua della grandezza della posta in gioco. La verità è che questo governo non nasce da non si sa quale «inciucio». Esso è la sola risposta, ancora di natura parlamentare, a una crisi di regime.
Anch’io ho una gran voglia di opposizione. Ma contro chi? E contro che cosa? Tutti vogliamo il cambiamento, ma non tutti si sono accorti che cosa ha rivelato il voto di febbraio. Non si è trattato solo di una sconfitta elettorale. Si è aperta, anzi si è rivelata, una crisi del regime parlamentare, cioè di quel sistema che consente anche agli sfruttati, votando per il loro partito, di essere rappresentati: una testa un voto. Insomma, una crisi della democrazia. Di questo si tratta. Quasi metà degli elettori che non vanno più a votare.
Una cosa mai vista prima, come il fatto che il comico Grillo prende di colpo il venticinque per cento dei voti; una destra che fino a quando resta una proprietà privata di una persona può finire anche in un’avventura; uno schieramento democratico che si ferma al trenta per cento. Non so se ci rendiamo conto della lastra sottile di ghiaccio su cui stiamo camminando.
La questione delle questioni che sta di fronte a noi, a me sembra quindi molto chiara. Essa è totalmente politica; è ridare al Pd la consapevolezza e l’orgoglio del proprio ruolo in questo passaggio che condizionerà anche la vicenda europea. Tra un anno c’è il semestre italiano, tra due mesi l’esito delle elezioni tedesche ci dirà quale ruolo intende svolgere la potenza egemone. Chiunque si candidi alla segreteria del Pd deve sapere che è in atto, in questi mesi e in queste settimane, uno scontro di fondo che in ogni caso cambierà in modo radicale il volto del Paese. L’Italia non sarà più quella di prima.
La posta in gioco è quindi enorme. Il Pd avrà un futuro se comprende che il successo dello sforzo difficile che gli italiani stanno facendo da anni per reggere la sfida dell’Europa e del mondo nuovo in cui siamo entrati, dipende crucialmente dal tenere insieme le necessarie riforme profonde del tessuto sociale con quelle di un assetto dei poteri pubblici e privati. E fare ciò restando all’interno di un regime democratico e parlamentare, sia pure rafforzato sul modello europeo. Se questo sforzo fallisce qual’è l’alternativa? È semplicemente il caos, la fuga verso una qualche soluzione carismatica ed è – come stiamo già vedendo – il convergere delle tante spinte eversive, qualunquiste e anti-parlamentari che stanno da sempre nella pancia del Paese. Non a caso la polemica si sta rivolgendo non solo contro di noi, ma contro la Presidenza della Repubblica intesa come istituzione super partes, garante di tutti, autorità morale che tiene unita questa nazione.
Ecco il campo di battaglia in cui siamo. E allora combattiamo. Smettiamola di piangerci addosso. Alziamo la grande bandiera della democrazia del Parlamento, senza la quale la giustizia sociale in un Paese come l’Italia ce la scordiamo.
L’Unità 31.07.13