attualità, cultura

“La finanza non trascina l’economia”, di Francesco Guerrera

La città dell’automobile è in panne. Detroit, la patria del sogno americano della mobilità a quattro ruote, della musica leggendaria di Diana Ross, Marvin Gaye e Stevie Wonder, e di una mitica squadra di basketball è andata in bancarotta l’altra settimana. Un fallimento enorme – il più grande crac finanziario di una città americana – causato da politici corrotti e bugiardi, da pensioni troppo generose e da sperequazioni economiche incredibili. «La differenza tra i ricchi e poveri – mi ha detto un amico che a Detroit è nato e vissuto, “è di proporzioni dantesche”». Un inferno sociale ed economico di cui nessuno si vuole sentire responsabile. Non i politici locali, non l’amministrazione Obama e non certo le banche di Wall Street che hanno fomentato l’incuria finanziaria di una classe dirigente incompetente. Meglio, allora, nascondersi dietro ai numeri: 19 miliardi di dollari di debiti, 20.000 pensionati e un tasso di omicidi ai livelli più alti degli ultimi 40 anni.

Ma quando una città così importante e simbolica, nel cuore industriale dell’America va in coma, i numeri non bastano. Come spesso nella storia breve ma intensa degli Usa, l’economia del paese si specchia nelle gioie e drammi di Detroit.

Il fallimento di Motown – la città dei motori – è emblematico di un’economia americana che non ha ripresa. L’America di oggi è in folle: non in recessione ma incapace di crescere abbastanza per trainare il resto del mondo fuori dalle sabbie mobili della crisi finanziaria.

E’ una posizione scomoda per chi ha il compito di guidare l’economia più grande del pianeta: dal capo della Federal Reserve Ben Bernanke al capo di tutto il resto Barack Obama.

Detroit stava male da tempo e prima o poi sarebbe crollata, ma il colpo di grazia le è stato dato da un’economia che, a cinque anni dalla Grande Recessione, non riesce a ritrovare la velocità di crociera. Nell’America di oggi, ci sono tante mini-Detroit – non solo città ma anche aziende e famiglie prigioniere di un limbo finanziario che non permette loro di investire, crescere, ricominciare a vivere.

Basta guardare ai consumatori – il tradizionale motore della crescita Usa. A giugno, hanno speso lo 0,4% in più dell’anno scorso, ovvero quasi nulla – una cifra clamorosa se si pensa che, in questa fase del ciclo economico, Joe e Jane Blogg dovrebbero avere una relazione molto più intima con le loro carte di credito. Ed invece, i signori Rossi del Michigan, Oregon e California non aprono il portafogli.

Gli esperti non sanno che dire e gli uomini della Fed non sanno che fare. Per loro, la congiuntura è da mal di testa: la crescita di certi settori, soprattutto quello delle case e, paradossalmente, l’automobile, sta alimentando pressioni inflazionistiche.

Ma il resto del paese non li sta seguendo: le ultime previsioni dicono che l’economia americana è cresciuta dell’1,5% tra marzo e giugno. Poco, troppo poco per poter aiutare i milioni di americani senza lavoro e le imprese che non se la sentono di investire.

Un po’ d’inflazione in certe parti dell’economia e crescita quasi zero nel resto: è un dilemma da incubo per i banchieri centrali. Come fanno, sbagliano: se smettono di stimolare l’economia, il paese potrebbe ricadere nella recessione; ma se continuano a pompare denaro, la formazione di bolle inflazionistiche è pressoché certa.

Per ora, gli uomini di Bernanke, hanno scelto la seconda strada e i mercati applaudono. Chi è depresso dalle notizie provenienti da Detroit, dovrebbe farsi una passeggiata dalle parti della Borsa di New York. E’ come se fosse un altro pianeta. Le strade vuote e gli edifici fatiscenti di Motown contro l’attività frenetica e il passo affannato di chi fa soldi con soldi.

L’unico settore che è veramente nel boom in America è il settore finanziario. Sembra incredibile visto che la crisi del 2008 aveva decimato Wall Street, ma l’elasticità dei signori del denaro non smette mai di stupire.

E’ un sistema quasi feudale. Se la Fed vuole stimolare l’economia, deve passare per banche e mercati – i meccanismi di trasmissione di ogni sistema capitalistico. Ma il servizio non è gratis: le prime tasche che si riempiono quando la banca centrale riversa soldi nel sistema sono quelle dei banchieri firmati Canali e Armani, non certo quelle dei pensionati di Detroit.

E’ per questo che, nonostante la crescita anemica del resto dell’economia, i mercati azionari sono a livelli record. Che banche quali J.P.Morgan e Goldman Sachs stanno facendo soldi quasi come prima della crisi. Che i ristoranti intorno al New York Stock Exchange sono pieni zeppi di gente che mangia ostriche come se fossero noccioline.

La squadra di pallacanestro di Detroit si chiama «Pistons» ma i veri pistoni della crescita americana sono i computer, gli Ipad e telefoni degli operatori di Borsa di Manhattan.

Sarebbe stupido criticare i mercati solo perché sono al rialzo. Il movimento dei flussi di denaro è logico e razionale. Se la Fed vuole dar via soldi gratis, non ci si può sorprendere e i mercati se li prendono. E non c’è dubbio che la crescita del settore finanziario sia positiva per l’economia e abbia un effetto volano per investitori, consumatori e fondi pensioni. Senza le banche e i mercati, l’America starebbe molto peggio.

Il problema è che non di soli soldi vive un’economia. La finanza dovrebbe essere il collante che unisce consumatori e produttori, chi risparmia e chi investe. Ma in questo momento, è isolata e fine a se stessa, incapace di dare un impulso vitale ad altri, più importanti, settori.

«La speranza non è un piano d’azione», mi ha detto questa settimana Kevyn Orr, l’amministratore speciale della povera Detroit. Anche chi non è di Motown sa che un motore, per funzionare, ha bisogno di tutti i cilindri.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal

La Stampa 31.07.13