Al chilometro 32,6 della Napoli-Bari domenica sera, non ci sono solo trentotto morti da piangere. C’è anche la necessità di capire che cosa sia successo su quel tratto di autostrada. Capire per accertare precise responsabilità e per far sì che eventi del genere non si ripetano.
È un lavoro che spetta ovviamente ai magistrati e ai loro periti, ma già ora alcuni elementi indicano che problemi del pullman precipitato – arrivato sulla strada nel 1995, quasi vent’anni fa, e poi reimmatricolato nel 2008 – e tenuta del parapetto di cemento, il cosiddetto «new jersey», che non è riuscito a bloccare la caduta, saranno centrali nelle indagini.
E centrale appare così, proprio alla luce di questi primi e sommari elementi, anche il tema di una manutenzione che troppo spesso viene trascurata o relegata a mero adempimento burocratico.
L’Italia è un Paese che invecchia non solo dal punto di vista demografico. L’usura delle cose e dei luoghi, unita a una congiuntura economica che obbliga ai tagli di molti bilanci – pubblici e privati – e a una gestione che spesso punta non tanto a ridurre le spese improduttive, quanto a tagliare quelle spese il cui effetto è meno evidente, possono generare un mix pericolosissimo.
Oggi ci chiediamo chi abbia fatto passare appena quattro mesi fa la revisione al pullman caduto, e con quale attenzione abbia operato. Ma in un Paese che avrebbe un gran bisogno di manutenzione, e che spesso se ne accorge solo quando è troppo tardi, sono mille gli interrogativi dello stesso genere, anche se non sempre, per fortuna, spinti da eventi così tragici.
Non fanno o non riescono a fare manutenzione i sindaci, anche quelli che hanno il bilancio in attivo e sono comunque costretti a non spendere dal Patto di stabilità. I risultati più evidenti – in termine di buche nell’asfalto – sono sotto gli occhi di tutti, ma altri rischi meno visibili sono spesso più pericolosi. Lo scorso anno, ad esempio, i Comuni italiani hanno speso 19,3 miliardi di euro per «vie di comunicazione e infrastrutture connesse», circa il 20% in meno di quanto avessero speso nel 2008 , hanno ridotto del 21% la spesa per la manutenzione degli immobili, del 30% quella per la «sistemazione del suolo», addirittura del 39% è calata la spesa per le «infrastrutture idrauliche». Eppure, secondo i dati di Legambiente e della Protezione Civile, sono più di 5 milioni i cittadini che vivono in aree a forte rischio idrogeologico, come scopriamo ogni volta che una frana o un’alluvione si mangiano via terra e – qualche volta – vite.
Si lascia senza manutenzione anche il patrimonio archeologico di Pompei, dove si rischia – lo hanno detto a gennaio scorso gli esperti dell’Unesco – l’inclusione tra i siti patrimonio dell’umanità in pericolo se entro due anni non verranno prese misure per frenare i crolli e il deterioramento degli affreschi. E in alcuni casi la manutenzione e le migliorie – non domenica sera, dove per ironia della sorte è stato proprio un cantiere autostradale a provocare la coda di veicoli su cui si è abbattuto il pullman – devono essere chieste in modo assai fermo a quei concessionari che hanno la tendenza a considerarle una voce utilmente cancellabile dai bilanci.
È una questione di soldi che mancano, certo, ma sulla scarsa manutenzione dell’Italia pesa anche qualcosa di più radicato: un’incapacità di guardare in prospettiva – che riguarda molti aspetti della nostra vita comune – e il vizio di pensare che prevenire eventuali rischi e curare con attenzione quel che si ha serva a poco. Quei trentotto morti, ai quali si deve una spiegazione che non potrà essere quella della semplice fatalità, ci ricordano che non è così.
La Stampa 30.07.13