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“Le guerre civili arabe così vicine, così lontane”, di Adriano Sofri

L’Egitto è vicino: ventimila partenze alla settimana dall’Italia. Dopo le primavere, l’estate. Purché a segnare questo tempo non sia la guerra civile. La guerra civile è lenta, vuole durare, va contro la velocità fulminea dei nuovi armamenti, la rallenta e uccide a lungo. Fermarla diventa sempre più azzardato. Ameno che non ci sia qualcuno lungimirante e forte abbastanza da intervenire tempestivamente. Una polizia mondiale fa paura, ma un giorno l’idea di un mondo senza polizia sembrerà una follia. A questo punto l’omissione di soccorso per la Siria non viene solo dall’assuefazione, o dal cinismo: si poteva accusare la “comunità internazionale” all’inizio. Ora prevalgono la frustrazione e la sensazione di imprevedibilità. La guerra civile non è di necessità sociale, o lo è solo in parte. È etnica, tribale, nazionale, religiosa, politica, di clan – di sesso, meno dichiaratamente, più profondamente. La guerra civile, anche quella degli sgozzamenti, dei machete, dei linciaggi a mano libera, quella eterna degli stupri, si gonfia all’ombra dei superarmamenti, fino alla quintessenza nucleare. La cui potenza pretende di risiedere nell’impossibilità di usarla: che è il trionfo (provvisorio, per definizione) dell’umanità realizzata, creare qualcosa che non possa essere usato. Per risarcirsi, si è inventato che serva da deterrente, e che è grazie a lei che non ci sono state altre guerre “mondiali”: e in parte, per una parte di mondo, può esser vero; però una guerra mondiale diffusa, sparpagliata generosamente sul pianeta, c’è. Le guerre civili imperversano nei luoghi del petrolio e dei minerali, in Nigeria, in Congo, dove il colonialismo disegnò frontiere di fantasia che gli sono sopravvissute.
La distanza e la vicinanza sembrano anche loro svuotarsi e sentirsi al riparo dai pericoli antichi, nel pianeta globale. Che la guerra si avvicini alle frontiere, che se ne veda il sangue e se ne senta il tuono non è più la minaccia che tolga il sonno a chi sta in pace, perché il sangue di qualunque luogo della terra si vede a casa propria, si sente di qualunque luogo il tuono. Abbiamo avuto una cosiddetta “guerra civile” durata anni a mezzora da qui, fino al 1995, e le estati sull’Adriatico non ne vennero turbate. Dopo, l’Europa ha ricevuto il Nobel per la pace, eppure quella guerra era in Europa. Non se ne erano accorti. Ora tocca a un’altra sponda mediterranea, in un’altra stagione balneare: l’Egitto, 83 milioni. E ogni tanto di nuovo escono foto e articoli indignati su un bagnante morto di infarto, e sulla spiaggia continuano a giocare a palla. Strizza l’occhio la guerra, dirimpetto alla spiaggia dove giochiamo a palla. Le primavere passano e si mostrano culle di guerre civili. (Da tempo alcune erano scoppiate e avevano fatto strage, anticipando la nuova agenda: come in Algeria). Il fatto è che regimi “moderati”, cioè dittature mutate in dinastie, che hanno sostituito la geografia coloniale e, protette dal mondo ricco socio in affari, sono durate decenni, il tempo largo di incubare sotto la loro repressione forze opposte ed esplosive, nel momento della rottura: integrate al raìs caduto o cadente, o oppresse da lui e sue nemiche giurate. La Tunisia aveva illuso che il cambio avvenisse pacificamente, e che il congedo di un regime ne mostrasse l’isolamento e insediasse una dialettica democratica, tollerante, plurale.
La Libia ha mostrato quanto fosse vasta e irriducibile la contrapposizione di clan, clientele, tribù, partiti ideologici e religiosi, gruppi infeudati a interessi esterni e, certo non ultime, bande e potenze criminali. La Siria ha rotto definitivamente il giocattolo. Centomila morti, certificano le Nazioni Unite. Simili numeri – così al di là di una misura terribile ma ancora immaginabile, quella di un disastro ferroviario – vogliono dire solo l’enormità, l’orrore, e una viltà mista all’impotenza. In Egitto, un occhio partecipe ma non specialistico, non distingue più quale parte sia quella che nel telegiornale di stasera riempie la piazza Tahrir, rispetto a quella di ieri sera e di domani. In Turchia era appena successo. La guerra civile si annuncia in una forma quasi pura, distillata: la metà di qua, l’altra metà di là, e via al bagno di sangue.
Noi siamo giusto dall’altro lato del mare di mezzo. Che quella israelo-palestinese sia a suo modo una guerra civile è evidente: perché le guerre civili non si somigliano se non in questo, che non accettano i confini e non fanno conto degli arsenali militari. E sono implacabili. L’Africa ne è lacerata, nel XXI secolo come nel famigerato Novecento, e anche come nell’ultimo terzo del Novecento, dopo l’indipendenza delle colonie. (Dico “come” senza far conti di morti, che sono comunque milionari. Prendete il Congo, la cui guerra civile le riassume tutte, e specialmente quella di razzia).La guerra civile è sporca e modernissima. Si è gettata alle spalle la guerra di guerriglia, che segnò la resistenza partigiana, dalla Spagna di Goya fino alla rivoluzione cinese e alla ribellione del Terzo Mondo, e che attingeva la sua nobiltà dall’opposizione fra popolo e tiranni. Il mito fu ancora realtà a Cuba, in Vietnam, salvo portarsi in grembo despoti nuovi, o in Cecenia, prima della devastazione degli animi. Ora la lentezza – la “lunga durata” e il tempo rallentato delle attese e delle imboscate e delle ritirate, l’abnegazione delle vite – appartiene ad ambedue i fronti delle guerre civili, ammesso che siano solo due. E appartiene ad ambedue (di più al regime che difende la propria sopravvivenza e si basa su una schiacciante superiorità di armi, almeno all’inizio) la cancellazione delle differenze fra combattenti e non combattenti, e di ogni convenzione di Ginevra, come ancora la Siria mostra impudente. Chi si attenterebbe a dire che sia la nostra “pace” il futuro ineluttabile del mondo, e non la violenza che abbiamo dirimpetto, che arrivasse a sbarcare da noi, non più su gommoni scalcagnati?
Postilla. Pronunciati a ridosso delle immagini del Cairo, i propositi di Enrico Letta rispondevano all’apocalittico rintocco di Grillo (“L’autunno è vicino, l’autunno è vicino…”): “Non vogliamo un autunno caldo ma di riconciliazione con la pubblica opinione, con i lavoratori, i giovani… Dobbiamo lavorare tutti per un autunno di riconciliazione”. Tutti chi, e perché quei propositi fanno un effetto spaesato? Certo, perché a dirli è il presidente di una coalizione malmaritata e “dettata dalla necessità”. La Politica esce di scena quando fa ingresso la Necessità. Ma c’è altro. C’è la questione del conflitto, di un conflitto che non sia devastante, e lo diventa quando sia troppo a lungo impedito – la pentola a pressione. I regimi arabi “moderati” hanno coperto a lungo le loro pentole. Erano puntellati da noi, quelli della pace, e però del petrolio, del canale di Suez, dei migranti insabbiati, di cui la pace si nutre. Anche da noi si fa appello alla rinuncia al conflitto. È come rinunciare alla pioggia oggi, per attirarsi la grandine domani, o dopodomani. Prima di vaticinare cose grosse come la guerra civile, e finché si resta sul terreno della parodia, meglio ricordare che distinzione e conflitto regolato nutrono la democrazia, e permettono di tagliare le unghie all’avidità – ché la buona volontà dei ricchi e le parole francescane dei papi non bastano. Non se le mangiano da soli, le unghie.

La Repubblica 30.07.13