Le proposte presentate il 24 u.s. dal Partito Democratico sul lavoro pubblico e sulle pubbliche amministrazioni hanno sicuramente dei meriti che vanno sottolineati.
Quel progetto di riforma, innanzitutto, ha il merito di interrompere quella spirale perversa fatta di demagogia, disvalori e di ideologie neo liberiste che negli ultimi cinque anni hanno caratterizzato l’approccio dei Governi Berlusconi/Monti sul lavoro pubblico: a volte, forse un po’ troppo spesso, il Partito Democratico ha risposto agli attacchi feroci di Brunetta e Monti con silenzi, ambiguità e timidezze.
Con queste proposte, con la scelta di presentarle PUBBLICAMENTE, coinvolgendo i massimi vertici del partito, del sindacato, del sistema delle imprese e del commercio si inverte una rotta e si imbocca, almeno spero, una direzione ben precisa che ricolloca il più grande partito di centro sinistra al fianco del lavoro pubblico e del sistema che quel lavoro garantisce: i servizi ai cittadini.
Quelle proposte, poi, hanno anche altri meriti che vanno evidenziati.
Riportare al centro di un credibile progetto di riforma della Pubblica Amministrazione il tema del contratto collettivo nazionale di lavoro, quello della contrattazione e della partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro e dei servizi, riaffermare il bisogno di rafforzare l’impianto privatistico del rapporto di lavoro e la contrattazione aziendale/territoriale quale luogo di realizzazione di nuovi piani organizzativi condivisi, significa, almeno per me, aver centrato il cuore del problema, aver colto i punti sui quali si sono consumati quei clamorosi fallimenti brunettiani e montiani sul lavoro pubblico.
Così come aver dichiarato l’esigenza di ridisegnare il sistema concorsuale, in una prospettiva di ripresa dell’occupazione (anche pubblica), è aver compreso che il lavoro pubblico è il futuro del Paese: se si investe sul pubblico, su quelle persone che lavorano per altre persone, si investe sul futuro.
Per chi come me, ha assistito alla presentazione di quelle proposte resta, però, un certo retrogusto di non detto, una sensazione di inesplorato, proprio su uno dei temi che si collocano a monte di qualsivoglia progetto di riforma: la natura delle prestazioni che lo Stato deve comunque assicurare ai cittadini, o meglio degli erogatori che le garantiscono.
E’ stato l’intervento del sindaco di Torino, nonché neo Presidente dell’Associazione dei Comuni Italiani ad aver posto con forza questo tema, schierandosi apertamente e con nettezza, non prima di aver lanciato un drammatico appello del tutto condivisibile (la Cgil lo denuncia da anni) sul rischio di un ravvicinato default dell’intero sistema delle autonomie (più di 60 miliardi di euro di mancati trasferimenti in quattro anni).
L’offerta di asili nido per i bambini di Torino, afferma il Sindaco, va mantenuta integra anche a fronte di quell’imponente taglio ai trasferimenti e per fare ciò si devono sperimentare forme alternative alla gestione diretta, (è evidente che il tema è trasversale all’insieme dei servizi).
Ecco, Piero Fassino ha posto uno dei problemi più grandi che la proposta del Partito che ha diretto non affronta: che sia una struttura pubblica o un privato ad assicurare un livello essenziale di assistenza sanitaria, di assistenza sociale o una qualunque altra prestazione che deriva da un diritto costituzionale è veramente la stessa cosa, è davvero ininfluente sotto il profilo delle garanzie di esigibilità di quei diritti, della qualità delle prestazioni che si erogano?
C’è ancora qualcuno che dubita che il regime di affidamento di prestazioni pubbliche alle strutture private (le fantomatiche “esternalizzazioni”) faccia risparmiare qualche euro? Non solo i ripetuti scandali, ad esempio quelli che si sono consumati in quella inestricabile palude che intreccia finanziamenti regionali e sanità privata, ma anche autorevolissimi studi e ricerche di istituzioni statali hanno già dimostrato il contrario : la gestione diretta dei servizi costa meno.
E poi c’è un terzo problema che riguarda proprio gli amministratori locali e che muovendo proprio dal presupposto, sbagliato, che il privato costa meno, pone un’altra grande questione: l’idea che eventuali risparmi (alla prova dei fatti nemmeno veri ) si possano consumare sulla pelle delle lavoratrici e dei lavoratori di cooperative e aziende private che, per vincere gare di appalto al massimo ribasso, riducono salari, precarizzano il lavoro, cancellano diritti. Questo è o no un tema che deve interrogare il Partito Democratico?
Quindi, le proposte avanzate sono un primo passo in avanti (anche se servirebbe un qualche grado di coraggio in più su alcuni aspetti).
Ma la rotta va realmente invertita anche facendo chiarezza sull’ampliamento dei perimetri pubblici, sulla natura delle prestazioni assicurate ai cittadini, sulla tutela reale dei diritti del lavoro, tanto di quello pubblico che di quello privato che assicura servizi pubblici.
La posizione del sindaco di Torino, tutta legittima per carità, è la posizione di tutto il Partito?
Io credo che farebbero bene i dirigenti del PD ad aprire questa discussione, difficile per carità, ma necessaria a ridefinire un percorso chiaro sul modello sociale al quale fare riferimento, verso il quale provare a portare il Paese.
Il titolo della proposta, “Pubbliche amministrazioni al servizio dei cittadini, delle imprese e del paese” impone innanzitutto al Pd lo scioglimento di un nodo: che significato si attribuisce alla parola “pubbliche”?
L’Unità 28.07.13