attualità, politica italiana

“Chi difende la Costituzione”, di Massimo Luciani

Si ergono a difesa della Costituzione repubblicana improbabili paladini. Sì. Sono gli stessi che, sino a poco tempo addietro, non perdevano l’occasione di sminuirne il valore. Gli stessi che pensano che i partiti, ai quali la Costituzione affida (come strumenti dei cittadini) il compito di determinare addirittura «la politica nazionale», debbano essere travolti dall’onda della decisione in rete.

Gli stessi che attaccano il Parlamento, che la Costituzione mette al centro della forma di governo, perché è il luogo del compromesso (orrore!) e dell’espropriazione della «diretta» volontà dei cittadini. Gli stessi che – paradossalmente e contraddittoriamente – vorrebbero travolgere il divieto di mandato imperativo, che la Costituzione ha previsto proprio per arginare il potere di quei partiti che – comunque – considera essenziali per lo svolgimento del libero gioco democratico.

Ma cos’è che ha risvegliato un così improvviso interesse per l’eredità di Dossetti, di Togliatti, di Moro, di Calamandrei, di tutti i grandi ai quali dobbiamo il lascito di una straordinaria Costituzione qual è la nostra? È, a ben vedere, un problema squisitamente tattico. Poiché il governo in carica (giusto o sbagliato che sia) ha investito buona parte del proprio capitale politico nel procedimento di riforma della Costituzione, ogni zeppa frapposta a quel procedimento finisce per essere un’utile mina sotto le poltrone governative. È, intendiamoci, un fine perfettamente legittimo. Ma qui stiamo parlando della Costituzione, del patto che fonda la comunità politica e ne articola gli snodi. E dobbiamo accostarci ad essa, alle questioni che la riguardano, nella prospettiva della storia, del campo lungo delle trasformazioni sociali e culturali di lungo periodo. Se lo si fa, il quesito da porsi è uno solo: abbiamo o non abbiamo bisogno, proprio in questa prospettiva e in questo campo, di riforme della Costituzione? E, se sì, di quali riforme deve trattarsi?

Si obietta, però, che, prima ancora, viene un altro, prioritario, problema: quello del procedimento che il governo ha proposto al Parlamento di seguire per realizzare le riforme, un procedimento derogatorio di quello ordinariamente previsto dall’art. 138 della Costituzione e che dovrebbe applicarsi soltanto in questa occasione. Qui, lo si sa, noi costituzionalisti siamo divisi. Alcuni pensano che una deroga al procedimento di revisione sia di per sé illegittima e che, comunque, il disegno di legge in discussione in Parlamento non contenga garanzie sufficienti. Altri la pensano all’opposto. Di questo secondo gruppo faccio parte anch’io.

Si dimentica, forse, che il procedimento in deroga è previsto da una legge costituzionale (se sarà approvata). Le leggi costituzionali possono contenere norme diverse da quelle costituzionali e possono essere dichiarate costituzionalmente illegittime solo se violano i princìpi costituzionali fondamentali, quelli – cioè – che definiscono l’identità stessa della nostra Costituzione. Ebbene: quali sono i princìpi fondamentali che l’art. 138 Cost. contiene e che non possono essere violati? A me sembra che siano due: la tutela delle minoranze; l’attribuzione dell’ultima parola (salva l’ipotesi non ordinaria di una seconda approvazione con una maggioranza di 2/3) al popolo, con il referendum costituzionale. Ebbene: il disegno di legge tanto criticato non solo rispetta, ma conduce a sviluppi coerenti quei due princìpi. Da una parte, tutela maggiormente le minoranze, perché costituisce un comitato parlamentare composto in proporzione non solo dei seggi, ma dei voti ottenuti (sicché tiene conto delle distorsioni determinate dall’abnorme premio di maggioranza dato dalla legge Calderoli). Dall’altro, consente il referendum costituzionale anche nell’ipotesi in cui si sia raggiunta o superata la maggioranza dei due terzi in seconda deliberazione. La garanzia del voto popolare, dunque, di un voto che serve proprio ad aumentare le possibilità di difesa della Costituzione, è addirittura esaltata. Le critiche, pertanto, sono fuori centro.

Quanto al merito, si leggono le cose più incredibili, con critiche che danno per scontato quel che scontato non è per nulla, e cioè che l’esito certo sarebbe quello del passaggio al presidenzialismo o al semipresidenzialismo. A parte il fatto che (con buona pace di alcuni catastrofisti, che, magari, potrebbero spendere una parte delle loro energie per sostenerla) la posizione parlamentarista è molto forte e tutt’altro che minoritaria, è difficile capire come e perché l’approdo opposto dovrebbe essere escluso se si seguisse la via del procedimento ordinariamente previsto dall’art. 138.
E non parliamo di chi dice che tutto è perduto perché la presidenza di Giorgio Napolitano avrebbe già realizzato, di fatto, il semipresidenzialismo. È legittimo apprezzare le scelte di Napolitano ed è legittimo criticarle. Quel che non si può fare, invece, è commettere simili errori di teoria costituzionale. Il presidente è stato ed è protagonista delle vicende della forma di governo. Ha potuto farlo, però, proprio perché non era stato legittimato da un voto popolare, bensì da un ampio accordo tra le forze politiche. Proprio perché non si è presentato come l’espressione di una parte, bensì come l’interprete delle esigenze profonde del Paese, facendo leva sulla propria qualificazione di rappresentante dell’unità nazionale. Che la si critichi o la si condivida, l’azione del presidente ha esibito un tratto addirittura iperparlamentare, nel senso che ha dispiegato tutte le possibili potenzialità del ruolo presidenziale nel contesto di una forma di governo parlamentare.
La partita, insomma, è aperta. Sarebbe bene abbandonare i toni eccessivi e cominciare a discutere, con pacata ragionevolezza, come giocarla al meglio. Per difendere la Costituzione, sì, ma dandole le armi per durare ancora molti, molti anni.

L’Unità 29.07.13