I sorrisi, le pacche sulle spalle, all’inizio. I volti tesi, gli sguardi rivelatori di sospetti reciproci, alla fine. Doveva essere un appuntamento per discutere del rapporto tra partito e governo e invece la Direzione Pd si è trasformata in uno scontro sulle regole congressuali talmente acceso che alla fine, con la scusa delle troppe richieste di intervento ancora in lista, si è deciso di chiudere senza un voto e di rinviare ogni decisione a una nuova riunione, convocata per la prossima settimana.
Certo, c’è anche il fatto non secondario, come dice Guglielmo Epifani facendo riferimento al processo Mediaset, che «la sentenza del 30 luglio, qualunque sarà il verdetto, provocherà conseguenze» e quindi un nuovo appuntamento sarà «a valle» del pronunciamento della Cassazione. Ma è soprattutto la lacerazione che si è prodotta sulla platea degli elettori del prossimo segretario (primarie aperte o solo iscritti) a consigliare il rinvio di un voto.
E se ad andare in scena è lo scontro tra l’ala governista del Pd (l’asse Epifani-Bersani-Franceschini) contro renziani e cosiddetti giovani turchi (Renzi e Cuperlo, anche se saranno avversari, in questo passaggio hanno fatto fronte comune) ci sono ulteriori livelli di scontro interni agli stessi due fronti. Perché, ci si domanda tra i bersaniani, Franceschini intervenendo subito dopo Epifani ha detto che il prossimo segretario andrà eletto soltanto dagli iscritti? Perché, ci si domanda tra i renziani, Fassino che pure nei giorni scorsi aveva inviato segnali differenti al sindaco di Firenze, è intervenuto dopo e non l’ha stoppato? Ma questo è alla fine dei lavori, che pure si sono aperti con il leader del Pd che andando incontro alla richiesta dei candidati segretari ha di fatto indicato una data per il congresso nazionale: il 30 novembre. Poi la riunione a porte chiuse ha preso un’altra direzione.
Epifani lancia un primo segnale di rassicurazione dicendo che «il tempo del congresso è ora, spostarlo non serve», poi insiste sulla necessità di separare la figura del segretario, da quella del candidato premier: «Io credo che dobbiamo in qualche misura tornare in questa fase a un segretario che si occupi prevalentemente dei problemi del partito, ne consegue che anche la platea di riferimento per la sua elezione dovrà essere funzionale a questa scelta. Oppure, possiamo riconfermare la scelta tradizionale senza automatismi sapendo che anche quella scelta incrocia tanti problemi. Io chiedo su questo di esprimere un’opinione». Subito do- po interviene Franceschini dicendo: «Credo giusto che il segretario venga eletto dagli iscritti nel modo più coinvolgente possibile».
Insorgono i renziani, che parlano di una proposta di scambio (congresso il 30 novembre ma aperto solo agli iscritti) inaccettabile. Così come per loro è inaccettabile che le candidature per la segreteria nazionale siano presentate soltanto dopo la chiusura dei congressi locali, come proposto da Epifani. Ma anche Cuperlo, Civati, Pittella criticano duramente quanto ipotizzato. E anche Bindi, Bettini, Gentiloni, i prodiani Zampa e Gozi, i giovani turchi Orfini e Verducci. Cuperlo, che pure è d’accordo col porre fine alla coincidenza tra segretario e candidato premier, interviene per dire che «se si cambiano le regole, dobbiamo farlo insieme», che «se non c’è accordo sui ruoli deve decidere il congresso» e che se non si trova l’accordo sulla platea degli elettori «è meglio non votare qui in Direzione». Il candidato segretario vuole primarie aperte, così come Bindi, che chiede un «congresso competitivo, non acquietato solo perché non si vuole disturbare il governo», che domanda retoricamente «a chi interessa un partito che non sia anche una forza del cambiamento?». Gentiloni va all’attacco: «Una direzione eletta quattro anni fa sta discutendo di come cambiare faccia e natura del Pd». Zoggia difende il segretario: «Epifani non vuole procedere a colpi di maggioranza, anche perché il valore dell’unità in questa fase è fondamentale, ma se qualcuno ritiene le proprie posizioni irriformabili non si va avanti».
Letta resta seduto in quarta fila, poi va al microfono per l’intervento che chiuderà la riunione. Dice che «serve un segretario che lavori a preparare un partito che quando ci saranno le nuove elezioni sia pronto a competere e a vincere», ma anche che serve «un partito non un gruppo misto, perché uniti non ci batte nessuno».
Fine degli interventi, fine della Direzione. Il previsto voto sulla relazione del segretario non ci sarà. Viene deciso di rinviarlo alla prossima riunione. Che si farà dopo che la commissione congressuale avrà deciso le regole. E, visto che è convocata per il 31, probabilmente anche dopo la sentenza della Cassazione. Sarà poi l’Assemblea nazionale del Pd, convocata per il 14 settembre, a ratificare o meno le decisioni assunte. E i renziani si sfregano le mani.
Renzi, che durante la Direzione rimane tutto il tempo seduto ad ascoltare e armeggiare con pc e telefonino, lascia il quartier generale del Pd senza proferire parola. Poi ai suoi dice un paio di cose. La prima: «A una cosa è servita questa Direzione, a indicare una data». La seconda: il tentativo di blitz sulle regole è fallito e non riuscirà neanche nelle prossime settimane.
Bersani non interviene, ma a chi gli domanda un commento spiega: «Tutte le primarie sono aperte, ciascuna secondo la propria logica. Le primarie per il premier saranno aperte a chi si dichiara elettore del centrosinistra. Quelle per il segretario devono essere aperte a chi aderisce al partito». E si torna a parlare dell’ipotesi che ai gazebo possa andare chiunque, anche dichiarando il giorno stesso di aderire al Pd. Una mediazione che starebbe bene anche a Renzi.
L’Unità 27.07.13