Da più parti nel centrosinistra – dentro e fuori il Pd, tra i cittadini e tra i loro rappresentanti – si levano con frequenza voci che chiedono di modificare subito la legge elettorale e consigliano di abbandonare il tentativo di riformare la Costituzione che il governo ha posto in marcia. Questa tesi – ripresa in forme più rozze dal Movimento Cinque stelle – muove dall’idea che la riforma costituzionale in itinere sia, nella migliore delle ipotesi, una perdita di tempo che porterebbe con sé, come danno collaterale, il rischio di tornare a votare con la legge Calderoli, e che, nello scenario peggiore, aprirebbe un grave vulnus nella Costituzione: nella forma, per via della deroga all’art. 138 Cost. delineata nel disegno di legge ora all’esame della Camera, e an- cor più nei contenuti, in quanto molti sospettano che si stia tramando uno stravolgimento della Carta del 1947.
In realtà vi sono solide ragioni che inducono a connettere strettamente la riforma elettorale con alcuni interventi per nulla marginali sulla forma di goveno, che appaiono quanto mai necessari, forse addirittura più urgenti della riforma elettorale stessa. Nell’attuale situazione politico-partitica è infatti difficile immaginare una legge elettorale che consenta la formazione di maggioranze omogenee alla Camera e al Senato, che sono necessarie in virtù del bicameralismo perfetto previsto dalla Costituzione (ed ormai nettamente superato dalla storia, come una pur superficiale occhiata al diritto comparato dovrebbe insegnare). Ciò a meno che non si voglia un ritorno ad un sistema elettorale proporzionale più o meno puro, rifiutando in radice di affrontare il problema della formazione delle maggioranze nelle due Camere.
Ne segue che, per produrre una riforma elettorale che abbia davvero senso, occorre pensare ad una legge elettorale per la sola Camera, prevedendo per il Senato un’elezione indiretta (e collegandolo al sistema delle autonomie territoriali). Ma ciò presuppone appunto il superamento del bicameralismo perfetto: e si tratta di una riforma non da poco, cui verosimilmente il Senato si opporrà con tutta la forza di resistenza di cui dispone. Non si tratta, affatto, di una «reformette», ma di un cambiamento strutturale della nostra organizzazione politica.
La forma di governo italiana richiede poi altri interventi correttivi, che al tempo stesso rafforzino la legittimazione e la stabilità del governo e del suo premier e rivitalizzino il Parlamento, anche alla luce del ruolo che i trattati europei gli riconoscono: insomma è il nostro regime parlamentare che va sottoposto ad un check-up complessivo, essenzialmente al fine di attuare l’ordine del giorno Perassi, con cui in Costituente si delineava la necessità di correggere la forma di governo parlamentare per evitare le degenerazioni del parlamentarismo, come infaticabilmente ricordava Leopoldo Elia. La forma di governo italiana, infatti, conosce molto bene tali degenerazioni: sia in senso assembleare (si pensi agli eccessivi spazi per l’ostruzionismo e a procedure usate quasi solo in Italia, come la sfiducia individuale), sia a vantaggio indebito del governo (si pensi all’abuso dei decreti-legge, dei maxi-emendamenti e delle questioni di fiducia), sia nella sopravvivenza di istituti ormai inadeguati (basti citare l’articolo 66 della Costituzione, un vero e proprio pezzo di archeologia costituzionale).
Oggi difendere il regime parlamentare – e dunque una delle caratteristiche essenziali della Costituzione del 1947 – significa riformarlo e che un sano «conservatorismo» costituzionale deve per forza osare. Quella che il Parlamento e l’opinione pubblica italiana hanno davanti rischia infatti di essere l’ultima spiaggia: non per chi vuole stravolgere la Costituzione del 1947, ma per chi vuole preservarla, adattandola ai tempi. Certo, si può sperare che la salvezza venga dall’autoriforma del sistema dei partiti o da un improvviso incremento del senso civico degli elettori, ma ciò richiedereb- be una fede cieca o il ricorso ad un ministero della Magia come quello citato nei film di Harry Potter. È molto più probabile, invece, che, se non si riuscirà a correggerla, la Carta del 1947 sarà travolta nel prossimo futuro, una volta che il fa- vor per il semi(?)presidenzialismo si sarà definitivamente insediato nei gruppi dirigenti, sotto la guida di qualche De Gaulle all’amatriciana.
Ciò non vuol affatto dire che non possa essere opportuno approvare una riforma elettorale «di salvaguardia», magari precisando esplicitamente che essa troverebbe applicazione solo per le prossime elezioni, in caso di uno scioglimento anticipato che impedisca di condurre in porto la riforma costituzionale. Ma non ci sono ragioni per non cercare di percorrere la via di una razionalizzazione più incisiva della forma di governo, magari accompagnata da una legge elettorale a doppio turno su base nazionale, che modernizzi il sistema di governo parlamentare progettato dai costituenti.
L’Unità 26.07.13