Come disse una volta il famoso comico americano Groucho Marx, è difficile fare previsioni, soprattutto se si riferiscono al futuro. Si potrebbe anzi dire che mai come oggi è giustificato esitare prima di addentrarsi nel territorio sconosciuto del tempo a venire, e questo per svariate ragioni. In primo luogo l’accelerazione esponenziale di tutta una serie di tecnologie, soprattutto nel campo della comunicazione, che trasformano non più di anno in anno, ma di mese in mese se non di giorno in giorno il contesto della società contemporanea. Vi è poi la caduta dei grandi «paradigmi di previsione», in primo luogo il pensiero filosofico di radice hegeliana che ha avuto una influenza così profonda sul sentire comune anche al di là dell’ideologia marxista. E che dire poi del tramontare di un altro riferimento ideologico-culturale, quello del progresso, percepito come inevitabile miglioramento della società?
Ma la possibilità non solo di prevedere il futuro, ma addirittura di immaginarlo, è stata drammaticamente intaccata anche dalla realtà materiale in cui oggi viviamo. Pensiamo soltanto al predominio, nell’economia, della dimensione finanziaria su quella industriale. L’industria vive di futuro, di previsione, di programmazione e si snoda attraverso il ciclo risparmio/investimento/costruzione degli impianti/produzione/ commercializzazione/profitto.
Il finanziario concepisce il conseguimento del profitto in un orizzonte temporale spesso di ore, e addirittura, con il «trading» elettronico, di minuti, di secondi. Il futuro tende a scomparire, sostituito da una sorta di spasmodico universale presente.
E’ proprio il «presentismo» a caratterizzare la nostra epoca. Soprattutto per le giovani generazioni il passato è irrilevante e, drammaticamente prive come sono di prospettive, il futuro anche.
Ma non è detto che si debba accettare la morte, o l’irrilevanza, della dimensione-futuro. Sono molto d’accordo con quanto ha scritto su queste stesse pagine Mario Deaglio quando, parlando dei «futuribili» ha messo in risalto la funzione non solo speculativa di un esercizio che non può certo essere quello di un patetico tentativo di natura profetica, bensì quello «di dare non solo agli scienziati sociali ma anche ai politici e ai normali cittadini la coscienza delle conseguenze di determinate azioni e decisioni» identificando «gli snodi attraverso i quali il futuro probabilmente passerà».
Questo è soprattutto vero nel campo delle relazioni internazionali, un campo dove più che in ogni altro dovrebbe imporsi una «etica della responsabilità» soprattutto verso le generazioni future, alle quali sarebbe indecente lasciare un mondo peggiore di quello che noi abbiamo ereditato da chi ci ha preceduto.
Il sistema internazionale attuale è in evidente fase di «decostruzione». Non solo infatti è venuta meno una vera e propria struttura portante, quella della Guerra Fredda e della dimensione Est-Ovest, che era certo conflittuale, ma anche forniva strumenti sia di interpretazione che di gestione delle vicende internazionali, ma è rapidamente tramontata l’illusione unipolare della unica Grande Potenza superstite, gli Stati Uniti. Anche se si esagera spesso nel descrivere il tramonto dell’Impero americano è evidente, come hanno dimostrato le disastrose avventure in Afghanistan e Iraq, che il mondo non si governa da Washington.
Ma anche i più radicali oppositori dell’America farebbero forse bene a chiedersi, non limitandosi ad esultare (l’anarchia non è certo meglio dell’Impero), che cosa potrà prendere il posto di un potere americano certo tutt’altro che estinto, ma in evidente perdita di effettività e coerenza.
Forse l’Europa? Mentre avanza il processo di allargamento avanza di pari passo una caduta non tanto di operatività quanto di egemonia, di immagine, e di quella proiezione verso il futuro che ha caratterizzato fin dai suoi inizi il progetto europeo. L’Europa ha bisogno di futuro più che di meccanismi istituzionali e risorse finanziarie. Senza credere in un futuro possibile da costruire insieme sarà inevitabile che si accentuino le tendenze già pesantemente evidenti alla cosiddetta «rinazionalizzazione», un processo centrifugo fatto di egoismi e visioni di breve termine fomentati sia dalla perdita della visione originaria sia, ultimamente, dalla crisi economica. Una crisi che stimola la dissennata propensione a cercare di «salvarsi da soli» lasciando andare alla deriva i più deboli (la Grecia, ma non solo).
Chi ancora si azzarda a prevedere il futuro dipinge a forti tinte uno scenario di sostituzione dell’Impero Americano con un Impero Cinese. Credo che si tratti di un colossale abbaglio. Non certo perché non sia vero che la crescita cinese è probabilmente il più straordinario fenomeno del nostro tempo. Ma, cercando di abbandonare l’economicismo dogmatico oggi imperante, se introduciamo fattori diversi dalla crescita del Pil (fra l’altro in rallentamento anche in Cina) vediamo che l’ipotesi di Beijing che sostituisce Washington risulta assai poco credibile. Viene in mente il proliferare di libri e articoli, negli Anni 60 e 70, che ci davano per sicuro che il Giappone era destinato a diventare la Grande Potenza capace di competere con gli Stati Uniti, e probabilmente anche a sostituirli come perno del sistema internazionale.
Per esercitare un ruolo di preminenza egemonica non basta l’economia: serve anche la capacità di rendere la propria preminenza comprensibile, accettabile, in un certo senso «universalizzabile» sulla base di un misto di propaganda, «marketing», proiezione di valori che sono ad un tempo propri e condivisibili in una dimensione globale. Non sembra che la Cina, da sempre autoreferenziale «Impero di Mezzo», sia in grado di farlo.
E allora? Allora probabilmente non ci resta che navigare a vista, tenendo ben presenti valori e interessi di ciascun Paese, e di concepire le relazioni internazionali come un sistema che ben difficilmente potrà essere ricomposto su base bi o unipolare, ma che dovrà procedere attraverso un insieme di geometrie variabili, di accordi bilaterali, di organizzazioni internazionali sia governative che non governative.
Il futuro resta comunque un terreno sempre più incognito.
La Stampa 26.07.13