Questo non è un governo di larghe intese, né di unità nazionale; e non è neppure un governo dell’inciucio. Non nasce da decisioni alte, né da basse. È un governo nato per fare non «politica», ma «politiche», come ha detto il presidente Enrico Letta il giorno in cui ha ottenuto il voto di fiducia del Parlamento. È figlio quindi tanto del caso, cioè della contingenza – della serie di errori e sconfitte che il Pd ha alle proprie spalle – quanto della necessità, del duro giogo di Ananche. Il Pd governa insieme al Pdl non per amore, né per convenienza, né per calcolo, e neppure per pacificare la nazione; ma per assoluta e radicale mancanza di alternative e per spirito di responsabilità davanti alla nazione: non sono possibili altri governi né altre maggioranze, e neppure nuove elezioni.
Governo non politico e non tecnico (dato il non grande successo del governo di Monti), ma governo della necessità che si sforza di essere di servizio – cioè di servire a qualcosa. Questo è il governo Letta. Il cui peggiore nemico è l’inconcludenza, l’impaludamento, l’ozio che genera ogni vizio: sia i vizi di chi sta al governo, cioè di trovarcisi troppo bene, di compiacersene, ovvero di volere prolungare oltre il lecito questo rapporto contro natura, di tentare di trasformarlo in abitudine; sia i vizi di chi sta in Parlamento, cioè di scaricare sul governo ambizioni e frustrazioni, ansie lecite e illecite, di gravarlo di tutte le incertezze (assai diverse, ma ugualmente destabilizzanti) che attanagliano i due principali partiti che lo sorreggono.
È dall’incontro di questi vizi che possono venire la palude e l’intrigo, l’inerzia e la fibrillazione, che messi insieme producono il cortocircuito fatale: la perfetta impotenza, la piena irrilevanza della politica – che le «politiche» da sole non possono surrogare, mentre accade il contrario: che cioè senza politica anche le politiche sono impossibili -. La sensazione, non solo fra i cittadini che non vanno più a votare, ma anche a livello internazionale, che la politica italiana non serva a nulla. E che ciò che di bene viene all’Italia sia frutto di benevole concessioni dei poteri forti d’oltralpe, e ciò che di male ci capita derivi da giudizi severi di altri poteri (di agenzie di rating, o di spregiudicati Stati stranieri) o da nostra disperata incapacità: e che di conseguenza nulla sia nel potere degli italiani e delle libere istituzioni del nostro Paese.
Vi è qualcosa di sbagliato in questa sindrome da impotenza, in questa voluttà di autolimitazione: nulla di ciò che ci viene di buono dal di fuori è immeritato, possiamo esserne sicuri. Ma vi è anche parecchio di vero e di corretto; la specifica qualità non-politica di questo governo lo fa sembrare paralizzato e privo di reale volontà, incapace di governare nel senso etimologico del termine, cioè di dare una direzione alla vita del Paese che non sia la tenuta dei conti pubblici, baluardo estremo e santo Graal della credibilità e della responsabilità. È proprio in questa evanescenza politica, in questo vuoto di orientamento, che ha la meglio chi urla di più, chi impone con più forza i propri valori non negoziabili – la vicenda dell’Imu ne è un esempio per il Pdl, anche senza rivangare altre recenti ferite simboliche; mentre non risulta un analogo sfoggio di muscolarità da parte del Pd -. È in questo vuoto che la politica diventa davvero irresponsabile. E che – se si vuole dar fede alla narrazione ufficiale, che ha appena avuto la fiducia del Senato – viene bypassata da chi opera in Italia, a qualunque titolo, come un’entità trascurabile. Il caso dell’irresponsabile Alfano è l’emblema del rischio che il governo trasformi, per mancanza di politica, la responsabilità da cui è nato in irresponsabilità.
Dare qualità politica al governo, quindi, è un obiettivo primario; rafforzarne il profilo, impegnarlo in direzioni significative, anche con pochi punti qualificanti, è condizione perché anche le politiche per cui è nato risultino efficaci. Ma accanto a questa inderogabile necessità ce n’è un’altra: che cioè non solo la politica sia impegnata in questa cura ricostituente, ma tutte le élites del Paese, a partire da quelle imprenditoriali fino a quelle intellettuali. Non è pensabile che l’Italia si riformi (nel senso di tornare a prendere forma) solo grazie alla politica; si richiede con urgenza un impegno di più vasto respiro, del Paese e non solo della cosiddetta Casta. La responsabilità è un dovere di tutti, non solo di qualcuno. E la riluttanza oggi non è una comprensibile strategia, ma è un peccato contro lo spirito: è ignavia.
L’Unità 22.07.13