Da qualche tempo il mondo è battuto dal vento della rivolta. Non un unico incendio, ma tanti fuochi che si accendono come per contagio reciproco. È una catena cui si aggiunge ogni mese un nuovo anello. Da Rio a Istanbul, da Il Cairo a Damasco, da Atene a Los Angeles, folle sempre più numerose si rovesciano nelle piazze sfidando il potere. Certo, l’entità della ribellione e le sue occasioni di innesco sono differenti. Si va dalla aperta guerra civile in Siria alla protesta contro i rincari dei trasporti in Brasile, dalla lotta al regime islamico in Egitto al rifiuto delle politiche di austerità in Europa e in America. E tuttavia, pur nella profonda diversità dei problemi e dei contesti, qualcosa di comune sembra unire queste piazze ribelli. Se finora si è globalizzata la finanza, oggi a farsi globale appare anche la rivolta. A collegare tra loro tali sommosse è per ora un elemento negativo, vale a dire l’indeterminazione politica, l’inidoneità a costruire istituzioni stabili, la continua reversibilità. A pochi mesi dalla destituzione di Mubarak, le forze armate egiziane hanno deposto il presidente eletto, mentre in Libia si riaccende la lotta tra etnie rivali.
Come mai? Cosa rende queste rivolte costitutivamente fragili, se non contraddittorie? Apparentemente destinate a bruciare nella stessa fiammata che accendono? Nettissima è la distanza dalle rivoluzioni moderne, ma anche dai moti che hanno trasformato in profondo il mondo occidentale tra gli anni Sessanta e Settanta. È vero, anche allora il mutamento socio-antropologico ha prevalso su quello propriamente politico. Ma ciò che adesso manca, rispetto a quegli anni, è la dimensione collettiva, l’intensità progettuale, l’opzione ideologica. Insomma, se non un vero e proprio orientamento, quantomeno un respiro, politico. Almeno allora gli obiettivi polemici erano espliciti, come le richieste — dall’attacco all’imperialismo americano alla rottura di vincoli costrittivi. Anche adesso le insorgenze di piazza, al di là degli eventi contingenti da cui nascono, affondano radici profonde nella globalizzazione dei mercati, nelle insostenibilità delle disuguaglianze, nella mancata diffusione dei diritti fondamentali. Tutti i regimi autoritari abbattuti in Africa, come quelli combattuti in Asia, meritavano e meritano di essere travolti. Così la protesta degli “indignati” è ampiamente giustificata dalla macelleria sociale di misure destinate ad accrescere gli effetti recessivi della crisi. Ma ciò non bilancia la difficoltà a solidificarsi in forme e istituzioni politiche.
Più che a un potere costituente, le attuali rivolte fanno pensare a un potere destituente — capace di minare l’assetto precedente, ma non a crearne uno nuovo. In esse prevale un carattere esistenziale, un bisogno di identità, da parte di gruppi eterogenei che si aggregano e disgregano a seconda degli eventi. Gli obiettivi, piuttosto che definiti anticipatamente, nascono e mutano nel corso stesso delle lotte. Quasi si direbbe che non sono i soggetti a fare le lotte, ma le lotte a fare i soggetti.
Perché? Cosa trattiene le rivolte contemporanee al di qua della soglia di effettività? Cosa conferisce loro una tonalità più soggettiva che oggettiva? Per rispondere a tale domanda bisognerebbe interrogare i mutamenti di fondo che da qualche decennio hanno investito l’antropologia contemporanea. Non parlo soltanto dell’arretramento della politica sotto la spinta congiunta della tecnica e dell’economia, ma dei suoi effetti sulla percezione del tempo, soprattutto da parte delle generazioni più giovani. Ad appannarsi, insieme alla visione politica, è la dimensione del futuro, appiattita e risucchiata dall’urgenza del presente. È come se il tempo si fosse ripiegato su se stesso, impossibilitato a proiettarsi in avanti, bloccato sulla gestione quotidiana di un’emergenza che non lascia respiro. Esso scorre in maniera automatica, senza penetrare lo spazio della vita e l’orizzonte del pensiero. Senza sapersi fare storia. Si può dire che le rivolte in atto abbiano lo stesso fiato corto, condividano lo stesso deficit che combattono, sperimentino la stessa sottrazione del futuro cui si ribellano.
Molte di esse, soprattutto in Africa e in Asia, parlano il linguaggio della libertà. E anche i cortei che sfilano nelle strade europee e americane esprimono comunque un’ansia di liberazione dai parametri insostenibili fissati dalla finanza globale. Ma anche questa passione per la libertà, più che un affetto positivo, o un sentimento produttivo, appare come il rovescio del disciplinamento che da tempo modella le nostre vite attraverso una fitta rete di dispositivi ormai diventati parte di noi. Si pensi alla registrazione sempre più capillare dei nostri dati personali, per non parlare dei meccanismi securitari di controllo che ci sorvegliano come un nuovo Panopticon. La stagione delle rivolte, insomma, appare il residuo non colmato, o il controeffetto, di una generale sottomissione alle potenze anonime che ci governano. Non per nulla per molti analisti questa è, insieme all’età della ribellione, l’età dell’obbedienza, della identificazione con leader, più o meno carismatici, che calamitano un consenso altrimenti incomprensibile. Si vedano in proposito le intuizioni visionarie di Étienne de la Boétie nel suo
Discorso della servitù volontaria e i tanti saggi che hanno assunto ad oggetto l’oscuro, ma saldo, nesso tra il desiderio di libertà e quello di servitù.
Alla base del dominio — ieri dei sovrani assoluti, oggi dei leader populisti o delle banche transnazionali — non c’è né una necessità naturale né una schiacciante sproporzione di forze, ma quel desiderio di uniformità e rifiuto della responsabilità che già Tocqueville rintracciava nelle pieghe della democrazia. Le rivolte che incendiano il mondo, senza riuscire a mutarlo, nascono da questa ambivalente falda psicosociale — dall’accettazione e insieme dal rigetto della servitù. Come sostiene Mario Galzigna in un libro appena edito da Bollati, Rivolte del pensiero. Dopo Foucault, per riaprire il tempo, perché possa toccare terra, e incidere in essa i segni del futuro, la rivolta deve prima insediarsi nelle nostre vite. Ma soprattutto, dopo anni di ripiegamento privato, dobbiamo tornare a coniugare conflitto e politica.
La Repubblica 22.07.13